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Franti è un personaggio del “Libro Cuore” di Edmondo De Amicis, inno ai valori patriottardi e borghesi per anni studiato nelle scuole italiane – e nulla mi impedisce di pensare che ancora oggi faccia la sua ciclica apparizione sui libri di testo delle scuole elementari -; nell’ideologia di De Amicis Franti è un malvagio, essere abietto capace addirittura di ridere dei funerali del Re.
Nella collettiva visione anarchica di Stefano Giaccone e Lalli questo personaggio sgradevole e vilipeso diventa simbolo di una non accettazione dei canoni e della prassi, elemento discordante, teso a distruggere una falsa armonia, una falsa pace; è così che alla fine degli anni ’70 nell’infuocato dibattito politico, ultimo residuo del ’68 e sua frangia più estrema, nasce a Torino il gruppo musicale che prende il nome dall’antieroe per eccellenza della letteratura monarchica italiana. Un collettivo, come accennato in precedenza, più che un gruppo vero e proprio; ci sono certo nomi che tornano senza soluzione di continuità, oltre ai già citati Giaccone e Lalli sarebbe il caso di citare quantomeno Massimo D’Ambrosio, Vanni Picciuolo e Marco Ciari, ma nell’universo Franti chiunque può arrivare a dire la sua, travalicando ruoli predeterminati e uccidendo nuovamente la prassi, la norma costituita.
La musica dei Franti è un miracoloso incrocio di istanze, idee e necessità: vi è l’urgenza del punk e dell’hardcore, ma senza dimenticarsi le radici folk della nostra terra, il blues sporco e sotterraneo – e nostalgico, per dirla à la Dylan -, il cantautorato e i canti di lotta di tutto il mondo. Perché l’anarchia di cui si fa portavoce la band è profondamente internazionalista, vicina alla Palestina e a tutto il medio oriente, mai dimentica delle guerre imperialiste fatte e sobillate, e del potere esibito nella sua fredda tragicità (l’esempio delle Falklands o Malvinas, tanto per dirne una). In questo “Non classificato”, già uscito quasi vent’anni fa per la Blu Bus e ora riproposto addirittura in triplo cd da A/la rivista anarchica e da Stella Nera, c’è praticamente tutto quello che la band torinese ha composto durante la sua esistenza, dal primo lavoro licenziato, ovvero “Luna nera” fino agli inediti presenti nel terzo cd e racchiusi nel nome – nuovamente nostalgico è l’aggettivo che viene più naturale usare – “Il lungo addio”.
È dunque possibile rintracciare all’interno di questa mastodontica opera omnia la wave incessante e disperata di “No Future”, slogan del punk duro e puro che diventa accettazione di un destino universale piuttosto che mera esaltazione dell’autodistruzione. Non vi è nulla di nichilista nell’attitudine dei Franti che altresì dimostrano una moralità e un’etica incrollabili; anche loro, come e più dei CCCP, non sono fedeli alla lira. Quando scrivono che “il diritto d’autore è una legge fascista” aprono il fianco a una serie di considerazioni che appare quasi impossibile rintracciare nella maggior parte dei gruppi non solo nostrani ma europei e mondiali. Inadatti alla costruzione di dogmi e di feticci da idolatrare, i Franti si prendono la briga di rileggere materiale derivato dall’esperienza di Robert Johnson così come di adattare a loro modo i “Gates of Eden” di dylaniana memoria. In “Io nella notte” sembra di riconoscere accenni di riverberi degni di Robert Smith ma la voce di Lalli riporta a terra il tutto, che non c’è possibilità di dedicarsi all’etereo in questo mondo che va diritto verso la propria fine. Tra accenni di rock’n’roll (“Only a New Film”), canti collettivi (“Chiara realizzazione di Ryonen”), divagazioni pianistiche (“Joey”), si procede verso la messa in mostra totale di un’umanità costretta a vivere ai margini.
Non a caso la band si sente rifiutata non solo dalle majors, come è ovvio che sia, ma anche da quel microcosmo “alternativo” che dovrebbe, a parole, lasciare libero spazio a chi non ha voce: si vede che la voce dei Franti è una fitta non solo per chi detiene il potere dei mass-media ma anche e soprattutto per chi dovrebbe riconoscersi (almeno parzialmente) in quella ideologia e capisce, di fronte a un pugno così chiuso – ognuno interpreti la metafora come meglio crede – di averne tradito gli ideali. Una delle pochissime esperienze realmente underground della nostra politica, laddove con il termine anglosassone si vuole identificare un movimento sotterraneo, negato alla vista immediata, da ricercare in profondità. Perché c’è la necessità di scavare per trovare i gioielli perduti, ed è proprio a questo verbo che si affidano i Franti quando chiedono di scavare “in francese, in arabo, russo, corso, giapponese, laotiano, svedese, tedesco, basco, sardo, armeno e aramaico, ungherese, bahasa Indonesia, olandese, serbo-croato e sloveno, catalano, macedone, turco, spagnolo, tagalog, italiano e in greco, curdo, moldavo, polacco, lituano e georgiano, portoghese e in gaelico, norvegese e in ruanda, vietnamese, bantu e mandingo ulof e friulano”.
Mille voci per mille modi di vivere, mille voci per un agire e un pensare che lotti per la comunità. In mezzo a questo schizoide volare di spazio e tempo, tra il 1976, il 1987 e il 1992 sarebbe ingiusto non spendere una parola a parte per quello che deve essere a ragione considerato il capolavoro della band: nel 1986 esce, sempre per la Blu Bus, “Il giardino delle quindici pietre”, in cui le diverse radici culturali della band – aggiungiamo anche dub, reggae e jazz – si fondono alla perfezione, eliminando qualsiasi linea di demarcazione e viaggiando su linee guida che vanno dalle strade lastricate di povertà di Soweto (“Every Time”) a un omaggio sentito alla voce e all’umanità di Demetrio Stratos, tra le più atroci perdite che la nostra cultura musicale abbia dovuto sopportare. “Acqua di luna” è la colonna musicale portante del film di Mimmo Calopresti – allora non ancora impegnato a delineare personaggi di terroriste pentite – e Claudio Paletto “Untreu”, ed esiste un frammento microbico dedicato “(ai negazione)”. Un lavoro capitale per la storia della musica italiana, e che è possibile ascoltare qui – l’album va dalla traccia 5 del secondo cd alla 14 dello stesso – venendo a conoscenza anche dei prima e dei dopo: questi ultimi ben rappresentati nel terzo cd di inediti, dove a nome “Il lungo addio” si può assistere alle ultime briciole prima dello scioglimento definitivo e dell’esperienza solista dei membri della band – da ricordare soprattutto quella di Giaccone e di Lalli -. Si annota, tra le altre cose, una bella versione della “Femme fatale” di Cale, Reed, Morrison e Tucker, per non parlar di Nico.
Se si vuole avere anche solo una vaga idea di quali esigenze musicali percorrevano la colonna vertebrale della penisola italiana durante gli anni ’80 è impensabile non imbattersi nei Franti, collettivo prima che gruppo, cocciutamente critico verso il potere statale. Ed è un mesto sorriso quello che mi fa pensare come, almeno musicalmente, da qualche parte si sia vinto.