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A un primo ascolto “Law Speed” non sembra neanche un album prodotto dalla Wallace di Mirko Spino; gli arpeggi acustici che fanno bella mostra di loro stessi nella seconda traccia (subito dopo la scoria industriale, sporcatura incosciente elevata al ruolo imponente e spesso svilito di intro), accompagnati da un perdurante senso di angoscia e da un’ossessione latente potrebbero benissimo appartenere alla scuderia lucente della Young God capitanata da Michael Gira.
Eppure più ci si addentra nei meandri dei suoni architettati dai Permanent Fatal Error più è facile scorgere alcuni dei tratti distintivi delle band capitate sotto l’egida di Spino: innanzitutto la predilezione per le lunghe digressioni strumentali, con la voce relegata al ruolo di strumento aggiunto. Anche se rispetto alla vena improvvisata che contraddistingue i gruppi di punta dell’etichetta meneghina (A Short Apnea, Bron Y Aur, Anatrofobia) qui ci si trova di fronte a un disegno sonoro ben definito e fin troppo maturo. E non potrebbe essere altrimenti, visto che il progetto musicale è stato ideato e reso materiale da Olivier Manchion, esule dalla splendida avventura dei francesi (oramai franco-italiani) Ulan Bator: di quell’esperienza permangono soprattutto le linee genetiche che facevano intravedere dietro le manie di Cambuzat/Manchion le ombre elettriche di Moore/Ranaldo.
E ci si trova così costretti a spendere una lacrima sui bei tempi di “Ego:Echo”, perché molte scelte stilistiche di “Law Speed” lasciano interdetti: solo la già citata “A-pic” e la quasi-title track “Low Law Speed” propongono qualcosa di realmente interessante, con un ciclico ritorcersi su sé che si fa nodo sempre più stretto e impossibile da sciogliersi, fino a esaurirsi (nel senso clinico del termine) nella stasi. Troppo spesso però l’ago della bilancia si sposta in snervanti territori post-rock talmente posticci da provocare solo una naturale assuefazione, principale campanello d’allarme che prelude alla noia; tutto suona, come accennato in precedenza, totalmente programmato, senza slanci umorali. Non che ci sia nulla di strutturalmente sbagliato in questo approccio, ma il problema è che, al di là di un’indubbia perizia, Billét, Marnin, Veltrone e Manchion non presentano doti creative particolarmente sviluppate.
La trilogia dei “B#Side”, ad esempio, non è né carne né pesce, non presentando tensione avanguardista e propensione melodica (con la stucchevole tromba suonata dalla Guest Star Massimo Guidetti a farsi largo nel secondo paragrafo) e né sembra dotata di una lungimiranza degna di nota. E lo spazio vuoto intitolato “Deaf-Blues” è una strizzatina d’occhio senza alcuna reale velleità artistica. Una musica rischiosamente priva di pulsioni; speriamo che l’errore fatale non sia sul serio permanente.