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Anche quest’anno, l’appuntamento indie di Torino non lascia delusi, proponendo un ricco piatto cui gli appassionati hanno potuto abbuffarsi variando tra proposte di generi diametralmente opposti. Ovviamente, come per ogni pasto che si rispetto, c’è stata la portata favorita e quella che si sarebbe potuta evitare. Soggettivamente, sia chiaro.
Quella che potrebbe essere l’ultima edizione di questo festival – i problemi sono sempre i soliti: non c’è gente che va ai concerti – si apre con la coppia Calvin Johnson-Arrington De Dionisyo. Quest’ultimo alle prese con un improbabile set per voce e fiati vari, rumorismi e fogli d’alluminio. Cacofonia inspiegabile o avanguardia intellettuale? Nessuna risposta, ma se l’esibizione ci ha lasciati con parecchi interrogativi, così non si può dire per l’ex Beat Happening. Johnson sale sul palco armato di sola chitarra classica da due lire ma non trova difficoltà alcuna ad intrattenere il pubblico grazie a monologhi alla Monty Python, canzoncine folk e improvvisazioni a cappella.
Le carte cambiano al secondo giro, quando sul palco salgono i Death From Above 1979 e i Fever. I primi hanno stupefatto con un set più hard e convincente rispetto a quanto sentito su disco, mentre i secondi non hanno fatto niente per ribaltare il giudizio già espresso in sede di recensione (qui). La loro sciapa minestrina punk-funk non intacca né affascina la sensibilità di chi scrive, al contrario dei Liars che, saliti sul palco dopo i convincenti Art Brut, hanno portato a Torino la loro sarabanda terroristica. Le canzoni dei terzetto newyorchese sono assalti sonori all’insegna del delirio e del nonsense, dando forma a quelle che su disco sembravano pastiches senza capo né coda.
È poi il turno dei 13&God, progetto parallelo di Notwist e Themselves. Aperto dai torinesi r. (non male ma decisamente fuori contesto), il collettivo rap-tronico si è lanciato in una delle performance più convincenti ed emozionanti del festival. Le composizioni si muovono con fascino ed eleganza all’interno di universi che fino ad oggi sembravano incompatibili. Tutt’altro menù invece quello proposto dai British Sea Power, che annullano l’anonimo set d’apertura dei Rakes con un’ora di pop chitarristico ordinato e composto che ci fa parzialmente rivalutare il non ottimo “Open Season”. La band non gode di una presenza scenica invidiabile, ma alla fine del concerto si dimentica l’aplomb per lanciarsi nel caos che vede capriole, arrampicate varie e una chitarra sfasciata. Quello che non ci saremmo mai aspettati da sei ragazzi inglesi apparentemente opposti all’irruenza del rock’n’roll. Irruenza che invece non è mancata agli Eagles of Death Metal, protagonisti di un set glam, tamarro, eccessivo e assolutamente irresistibile. Niente a che vedere con il minimalismo dei Kills, la cui presenza scenica è sì irruente e tarantolata, ma asciutta e legata comunque ad un suono lancinante ed acido. Una monotonia affascinante e a volumi elevati che ha dimostrato come il duo sappia maneggiare il repertorio con personalità.
Arriva poi la sera degli Ordinary Boys, aperti dal fenomeno mod italiano Minivip, che richiama allo Spazio211 il popolo di p.za Statuto (piazza torinese dove sono soliti ritrovarsi i mod della città) e trasforma il parcheggio in un’esposizione di Vespe e Lambrette. Niente di male ci mancherebbe, ma tutto questo movimento per un set anonimo come quello degli opener ci sembra inappropriato. Quello che manca sono proprio le canzoni, non si tratta nemmeno di cover dei Jam, lì almeno non sarebbe difettata la materia prima. Niente a che vedere con gli headliner, i quali hanno fatto ballare il pubblico con il loro guitar-pop contaminato col punk, col reggae e col northern soul. I dischi della formazione inglese sono quanto di meglio si possa avere dall’attuale scena d’Albione, e dal vivo le canzoni rendono ancora di più (compresa la tiratissima cover di “KKK Took My Baby Away” dei Ramones).
Serata da dimenticare invece quella dei Departure. Già l’apertura dedicata ai letargici Could Be Cool (Depeche Mode meets Subsonica meets chitarre elettriche stanche) è stata una mezza botta in testa, ma è con l’arrivo della ghenga di Northampton che si ha la conferma della totale serata no del festival. Ci può stare, del resto non possono essere tutti bravi no? Fortunatamente ci pensa il solito Jon Spencer a rimettere il treno sui giusti binari. Come un supereroe del rock, il lupo sale sul palco ed infiamma la platea per un’ora e mezza di elettricità, ritmi serrati, coreografie forse un po’ retoriche ma di sicuro impatto. Decisamente più grintoso rispetto alla nostro primo incontro invernale (Milano, 12 ottobre 2004), ha chiuso in maniera ottima un comunque meritevole festival.
Certo, non possiamo essere totalmente felici visto che probabilmente l’evento underground dell’estate torinese rischia di non esserci più grazie a chi si lamenta sempre della mancanza di concerti e poi non va ai suddetti, ma potrebbe anche servire da lezione, perché lo Spaziale ha sempre dimostrato come è possibile ottenere artisti di qualità ed ottimi concerti a prezzi irrisori, dimostrando ancora una volta che la musica può e deve essere di tutti.