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Prima di giudicare un lavoro come l’ultimo partorito da Michael Gira è doveroso porsi un interrogativo: è concessa a un musicista di consumata carriera e incrollabile gloria guadagnata sul campo la libertà di suonare solo ed esclusivamente per il gusto di farlo? O come tasselli microscopici della torre d’avorio del mercato sarebbe d’uopo indignarsi e gridare allo scandalo? La civiltà attuale può permettersi il lusso di accettare un artista come semplice demiurgo dell’arte, evitando di riflettere su quanti meccanismi si mettono in moto ogni qual volta Gira decide di prendere un aereo, andare in un locale di Londra (o di Parigi o di Vancouver o di Melbourne o di Pescasseroli) afferrare la propria sei corde e mettere l’ugola a servizio del popolo degli idolatri?
Perché il nostro beneamato ha deciso per una volta di non bruciare sull’altare della perfezione, di non lasciarsi strappar via l’anima di dosso; la scrittura è lontana mille miglia dal volto ansiogeno e catartico mostrato in “Everything is Good Here/Please Come Home”, a tratti può tornare per un breve accenno (come l’incedere ossessionato di “Michael’s White Hands”) ma non fa parte dei cromosomi di questa nuova avventura. Dopotutto lo esplicita anche il titolo, qui Michael Gira non sta esponendo se stesso, non sono le sue fibre e i suoi muscoli a essere gettati in pasto ai corvi: qui, se non fosse ancora chiaro, si canta di “Other People”.
Per farlo l’ex-Swans si tira appresso una delle ultime creature tenute a battesimo per la Young God, quella Akron/Family che per quanto mi riguarda rappresenta una delle novità più gratificanti di questo 2005: il quartetto lo segue senza problemi e a tratti sembra quasi anticiparlo, soprattutto negli episodi più sostenuti dove pare quasi impossibile non riconoscere il timbro che marchia a fuoco l’esordio omonimo della band. Insomma, gli angeli di luce rimangono impalpabili ma regalano atmosfere più rilassate, delicati viaggi nei quali è anche possibile a più riprese sorridere. Senza stravolgere forma e contenuto di ciò che si mette in mostra ma adeguandosi a essi, in silenzio. C’è un che di religioso nella maniera di trattare i materiali che Gira espone, e questo va oltre qualsiasi critica di immobilismo: perché è indubbio che non ci sia di che strabiliarsi ad ascoltare la dozzina di canzoni nuove di zecca che questo cantautore ancora estraneo al grande pubblico italiano – e anche a quello medio, e forse addirittura a buona parte di quello piccolo – ha inserito nel nuovo lavoro, ma è altrettanto indubbio che si senta con forza alle spalle di ogni singola nota un’ideologia, e non solo musicale.
Non abbiamo a che fare con il capolavoro di Michael Gira, non stiamo neanche dalle parti del podio, ma in “Other People” è possibile come non mai comprendere cosa significa “fare musica” per il fondatore della Young God, ed è qualcosa di parzialmente indefinibile ma che ha sicuramente a che fare con la collettività, l’interscambio, la fraternità. A tratti tutto questo è evidente a tal punto da diventare commovente, come nel crescendo finale di “Simon is Stronger Than Us”. Ed è proprio grazie a questa consapevolezza che mi permetto di ripetere gli interrogati che ponevo in precedenza: è vero, è un lavoro transitorio e chi lo ascolta probabilmente non ci guadagna in meraviglia e in crescita dell’arguzia quanto Gira ci guadagna vendendolo. Perché siamo in un mondo dominato dal mercato, e per campare devi vendere ciò che è tuo (e poi ci scandalizziamo se i veri proletari di questo mondo sono costretti a vendere i propri figli, unica cosa che hanno il diritto di produrre!), e anche un uomo forse ideologicamente estraneo a tutto questo come Michael Gira deve comportarsi di conseguenza.
Ma, paradossalmente, lo fa regalandoci ciò che ha di più vicino a se: la sua vita, al di là dell’arte e del mercato che se ne ciba. Qualcuno ha intenzione di lamentarsi per questo?