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Avevamo già i fucili puntati, noi giovani irrispettosi delle vecchie glorie solo perché ai tempi di “Exile on Main St.” eravano meno che proto-idee umanoidi. In fondo, ripassando la storia del rock, i Rolling Stones – e questo credo sia assodato – non azzeccano un disco da una manciata di millenni. Più o meno da “Some Girls” e si parla del 1978. Dopo i non esaltanti episodi degli anni ’90, una raccolta tanto ovvia quanto ultravenduta e la solita caterva di inutili live è arrivata l’ora di giudicare Jagger, Richards e Watts (gli unici della formazione originale, 1492 o giù di lì) per quello che sono: un gruppo di simpatici vecchietti che cercano di divertirsi con la musica che hanno sempre fatto. Ovvio che il gioco funziona a metà, perché se è vero che dove gli Stones si limitano a seguire il copione del rock’n’roll fatto di riff, sensualità e sporcizia risultano ancora trascinanti – in fondo, queste cose le hanno inventate loro – non sempre riesce invece la formula della ballata, del mid-tempo e dell’introspezione.
In fondo Mick è sempre stata una puttana da palco, non è credibile nelle vesti del cantore della malinconia. Almeno non ora, trent’anni dopo “You Can’t Always Get What You Want” (a parere di che scrive, una delle più belle canzoni di sempre dei nostri). Per questo gli episodi meno guasconi rischiano di annoiare per ovvietà e stucchevolezza. È il caso di “Streets of Love” – orribile singolo d’apertura, talmente scontato che avrebbero potuto scriverlo i Keane o i Vega4 – di “Biggest Mistake” – melliflua e un po’ banale – o “This Place is Empty”, che parte bene con una melodia Tin Pan Alley per essere poi rovinata dal gracchio corvino di Keith Richards. Non è questo il ruolo del nostro amico, infatti, quando si limita a fare il suo lavoro (trovare riff ammazza-tutti a cascata) arrivano “Rough Justice”, classico brano degli Stones che si ascolta sempre con immenso piacere; il blues lercio di “Back Of My Hand” e il rock’n’roll negro di “Oh No, Not You Again”.
Certo non è poco, considerando che le previsioni erano tutt’altro che rosee. Ci si aspettava un lavoro decisamente stomachevole, grottesco e caricaturale. Arriva invece un disco che ha il difetto di essere soltanto onesto e il pregio di non essere la merda auspicabile da un gruppo che nel 2005 non ha più significato di esistere se non per riproporre in chiave live, seguendo sempre lo stesso e sacrale copione, i brani immortali scritti tra il ’64 e il ’72. Ma non è sufficente. Non basta un pugno di riff – nonostante vengano dall’uomo del riff – a giustificare l’inutilità insita di un disco che se oggettivamente non ha niente al posto sbagliato, eticamente mostra la faccia da culo con cui certa gente si ostina a ritardare l’età della pensione. Quando l’ispirazione viene a mancare è meglio farsi da parte, nonostante qualche rock’n’roll al vetriolo che, per la legge dei grandi numeri, ti può ancora capitare di scrivere. Forse non è ancora il caso di premere il grilletto. Penseremo ad una punizione più adeguata.