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Akron fa venire alla mente l’Ohio, il Colorado, l’Iowa, il Wyoming, tutti quegli stati che ancora non hanno superato il duro contrasto tra contemporaneità e passato e vivono in un limbo indistinto dove è possibile trovare uno accanto all’altro il cowboy con gli stivali sporchi di merda di vacca e l’impiegato della grande multinazionale in giacca e cravatta. Family fa venire in mente il Thanksgiving Day ti tanti film hollywoodiani, con il tacchino farcito in forno e le varie generazioni che annullano le distanze che si sono costruiti durante tutto l’anno per abbracciarsi e ricordarsi l’un l’altro che “il grande spettacolo della vita va avanti”.
Quello slash che divide (o unisce?) i due termini fa intuire come i due elementi siano da leggere nella loro chiave prettamente simbolica: Selth Olinksy, Ryan Vanderhoof, Miles Seaton e Dana Janssen sono l’ennesima creatura geniale cullata e vezzeggiata da Michael Gira e dalla sua Young God, e portano avanti un recupero delle chiavi di lettura della musica rurale statunitense. Nulla di particolarmente nuovo, mi si dirà, dopotutto la ripresa ostentata del folk è prassi consolidata degli ultimi anni, e i vari Devendra Banhart, Vetiver, Animal Collective, Black Forest/Black Sea, Fursaxa sono lì a ricordarcelo a ogni piè sospinto (e prima ancora di loro i Black Heart Procession e su via nell’albero genealogico fino ad andare a ripescare il mai troppo rimpianto Johnny Cash).
Eppure l’interpretazione della musica acustica e popolare che il quartetto propone è ricco di notevoli spunti di interesse: a fronte di una ricerca del rimpasto, che vede l’arte protagonista di un riutilizzo continuo e amalgamante dei generi costretti a una mescolanza che è propria dell’attuale stato della civiltà occidentale propriamente detta e che ha raggiunto risultati eccellenti nei lavori dell’Animal Collective e, perché no?, nello scontro tra acustica ed elettronica dei Matmos di “The West” e “The Civil War”, l’Akron/Family sposta l’ago della bilancia dalla parte dello standard.
Non vi è dunque mescolanza di generi, non vi è insubordinata presenza di ibridismi, ma solo costruzione di un perfetto universo folk; ma non aspettatevi che la musica popolare perda così facendo in contemporaneità scadendo nel più trito e deteriore dei conservatorismi. Semplicemente la materia con cui la band si mette a giocare esula da qualsiasi rapporto con ipotesi musicali altre, non le concepisce e non le fa confluire. Sì, c’è qualche accenno di questa possibilità, soprattutto nella chitarra scartavetrata che fa bella mostra di sé nell’accumulo sonoro finale di “Running, Returning”, ma è ben poca cosa.
Per il resto ecco un viaggio entusiasmante nella complessità delle radici musicali statunitensi, dai canti appalachiani alle languide chitarre sudiste, dalle atmosfere nevose del nord fino all’orchestrina per banjo delle fiere del grano e del cotone. In questo universo l’Akron/Family – che come ogni buona dinastia ha anche una serie pressoché infinita di ospiti e amici con cui intessere le trame del lavoro – si muove con intelligenza, agendo principalmente sulla struttura dei brani, che evitano la semplicità e regolarità tipica del folk per ragionare sui cambi di ritmo, sulle stasi e sulle accelerazioni.
Paradigma di questa scelta musicale rimane il brano posto in apertura dell’album, quel “Before and Again” che esemplifica con una forza fin troppo palese il ruolo che Olinsky e compagnia hanno intenzione di ricoprire all’interno della musica contemporanea. Perché c’è chi le radici culturali le va (meritoriamente) a ripescare e chi invece ce l’ha nel sangue e non deve far altro che metterle in arte, dar loro forma, costituirle: se proprio fossi costretto a trovare un nome da avvicinare a quello dell’Akron/Family probabilmente ripescherei i Lullaby for the Working Class, straordinaria meteora passata pressoché inosservata. Anche se il paragone non è perfettamente aderente, vista l’urgenza di interpretazione rock di alcuni brani posta in calce ai tre lavori di Stevens e Mogis. Qui, probabilmente, abbiamo a che fare con una purezza – nel senso più estremo di innocenza infantile, impossibilitata alla macchia, inadatta all’imperfezione dei bordi – sconosciuta alla maggior parte delle band contemporanee. Purezza che secondo logica dovrebbe andare gradualmente perduta nei prossimi lavori ma che per ora è possibile godere in tutta la sua forza e nitore. Vedremo dove, come e se evolveranno questi ragazzi; ma questa è materia per il futuro, e ora sinceramente lascia il tempo che trova.