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Curiosa la vita. Mentre il mondo musicale è battuto a ferro e fuoco con l’immensa campagna pubblicitaria dei Rolling Stones, ci si dimentica che anche l’altra metà del cielo, Paul McCartney, ha deciso di tornare dal suo dorato esilio per un nuovo disco. Beatles VS Rolling Stones quarant’anni dopo? Fa quasi ridere pensarlo, ma è effettivamente così vista la quasi contemporanea uscita dei due lavori. E anche se certe sfide sono montate ad hoc, sarebbe ingiusto perdersi il gustoso divertimento di un vecchio gioco cui tutti abbiamo partecipato.
Cominciamo con le cose veramente importanti. Dietro la consolle c’è Nigel Godrich, l’uomo che ha contribuito in maniera determinante alla definizione del suono dei Radiohead e ha reso unico un capolavoro come “Sea Change” di Beck. La sua mano si sente soprattutto nel lavoro di rifinitura, limando gli eccessi, negando quelle divagazioni kitsch che avevano influenzato il giudizio a posteriori sugli Wings e di buona parte della carriera solista. Un altro elemento non da poco: si tratta di un bellissimo disco. Questa è la migliore delle sorprese. Quanto avreste scommesso sul ritorno in auge del baronetto dopo “Freedom”? Le mie povere tasche non potevano permettersi puntate, ma non versavo molta fiducia nell’operato di Sir Paul. Sia perché si credeva che l’ispirazione dei tempi migliori fosse ormai emigrata verso gli sconosciuti lidi, sia perché avevo sempre preferito Lennon (nonostante la mia canzone preferita di sempre dei Beatles – “Helter Skelter” – era opera del Macca).
Insomma, si comincia con “Fine Line” e subito non ci credi: una melodia perfetta, ficcante, un singolo pop come non se ne sentono da tempo, che denota classe ed immensa eleganza, retto da un pianoforte a cascata e un andamento sbarazzino degno delle migliori prove di un tempo. Poi arriva la riflessiva “How Kind of You”, ballata introversa che guadagna tantissimo grazie alla cura Godrich – che aggiunge tastiere, organi e orpelli che non risultano mai fuori posto – e l’acustica “Jenny Wren”, un brano che sembra chiudere un cerchio in quanto ricorda Elliott Smith, uno che non ha mai nascosto un amore spassionato per i Beatles. Come a dire che Macca si ispira a sé stesso attraverso i suoi migliori allievi. Ed ecco che finalmente arriva il Fantasma del Passato, “At the Mercy” ha il sapore di una “A Day in the Life” nella misura in cui “Friend to Go” ritorna agli episodi acustici di “Rubber Soul”. Certo non possiamo incolparlo, non dev’essere facile mettersi a scrivere canzoni che non ricordino quello che è ed è stato. Soprattutto perché è questa la cifra stilistica di McCartney, il pop. E se per essere così sublime deve ricordare i quattro di Liverpool, ben venga! Soprattutto se i risultati si ritrovano in una sergeantpepperiana “English Tea” o in nell’intimo omaggio a sé stesso di “Too Much Rain”.
Alla luce di questo, ci si dimentica presto anche dell’andamento tropicale – fuori luogo e contesto – di “Certain Sofness”, episodio meno riuscito dei tredici, che ha però il pregio di far risaltare in tutta la sua bellezza “Riding to Vanity Fair”, secondo brano che trova in Godrich un magnifico stilista. Si continua poi con il pregevole esercizio di stile “Follow Me” e la magnificamente ineccepibile “Promise to you Girl”, un brano che non solo ha nei solchi il germe dei Beatles in una maniera così palese da far tenerezza, ma riesce a restituirne l’alone mitico e leggendario. Si conclude con una minore “This Never Happened Before” e una toccante “Anyway”, ballata per solo pianoforte che non potrà non mandare in brodo di giuggiole i romantici e i pop-addicted.
In conclusione, una definitiva sorpresa. Certamente la classe non è acqua, ma Paul non ne sfoderava una simile da lustri. E non ci risparmiamo gli elogi per un disco che certamente non sarà tra le nostre preferenze di fine anno, ma che merita ugualmente la nostra migliore standing-ovation. Una dimostrazione così sublime da parte di un Mostro Sacro di tal guisa non si sentiva da tempo. Le orecchie ringraziano, il cuore anche.