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Dopo la prova scialba di “Pig Lib”, temevamo che anche per Stephen Malkmus il futuro riservasse il declino. Una carriera solistica senza grandi soddisfazioni insomma, come è già successo purtroppo a tanti eroi del rock indipendente anni ottanta, Bob Mould, Paul Westerberg o Frank Black, tra parecchi album anonimi e qualche sussulto, con la sensazione che il passato resterà irraggiungibile.
Eppure Malkmus ci ha sorpreso e sebbene “Face the Truth” non sia un nuovo “Slanted and Enchanted” o un nuovo “Crooked Rain Crooked Rain”, ci rassicura. Sarà che il disco è soprattutto suo e i Jicks sono relegati in secondo piano, ma in queste canzoni l’ex Pavement dimostra di aver ritrovato la voglia di rischiare, di scompigliare le carte.
Che qui significa rendere il suono più aspro rispetto ai dischi precedenti e riscoprire il talento nel comporre splendidi brani sghembi, pieni zeppi di dettagli spiazzanti. Non soltanto questo, perché affiora una strana tensione psichedelica, qualche tastiera dal suono anni settanta, incastri di chitarra fin troppo contorti. Quando le cose non vanno per il meglio, allora i brani si sfilacciano e il suono ne è appesantito, come succede negli otto minuti di “No More Shoes”.
Eppure il disco è più che convincente a partire dalle tracce più pacate, dove la scrittura di Malkmus torna a livelli di eccellenza. “Loud Cloud Crowd” ha un inizio trattenuto ed invece sfocia in un brano pop solare, “Post-Paint Boy”, ha il sapore di certe pagine quiete degli ultimi Pavement, “Mama” è una melodia cristallina che viene improvvisamente spezzata, “Freeze the saints”, il brano più classico dell’album con in evidenzia piano e un suono leggero, ricorda il Lou Reed di “Coney Island Baby”. E poi il brano più facile mai composto da Malkmus, “Baby C’mon”, uno scherzo pop che avrebbe potuto essere un successo, e non lo sarà, e ancora il contorcersi di “Pencil Rot” e “It Kills”, giusto in apertura del disco. Il migliore Malkmus da tempo.