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Il power pop è sempre stato un affare per pochi. Sono infatti quegli stessi pochi che, nel 2005, aspettano con ansia un nuovo lavoro dei Posies. La loro epopea può essere paragonabile a quella di mille altri gruppi: un album decisivo come “Frosting on the Beater” in mezzo ad una discografia mediamente carina ma forse scevra della personalità occorrente per diventare qualcosa in più. Le occasioni di riscatto non sono però mancate: Ken Stringfellow suona con i R.E.M. mentre pubblica dischi solisti di ottima fattura (l’ultimo, “Soft Commands”, è una piccola gemma di cantautorato beachboysiano) e Jon Auer trova il tempo per partecipare qua e là con tributi di pregevole appeal melodico. Insieme poi, accompagnano Alex Chilton nei concerti a nome Big Star (oltre ad aver registrato un nuovo disco, “In Space”, anch’esso in uscita quest’anno e a breve su queste pagine), band da sempre nei cuori dei Nostri così come di tutti gli appassionati di power pop.
Ma veniamo al dunque, le aspettative degli appassionati sono sempre una spada di Damocle per i gruppi e non ci meravigliamo che spesso questi non riescano a rispettarle proponendo dischi magari carini e graziosi, ma decisamente inutili e privi di una decisa zampata. I Posies non fanno eccezione, perché “Every Kind of Light”, lo possiamo affermare con tutta certezza, è il titolo più debole del loro catalogo. Non si tratta di azzeccare melodie e arrangiamenti, quelle sono lì, chiare come il sole e gradevoli come la brezza di primavera, quando sai costruirle non dimentichi la formula perfetta. Quello che puoi dimenticarti è l’abilità di scrivere delle canzoni memorabili, punto debole dell’opera, che presenta brani un po’ sciatti, esercizi di stile che tolgono la polvere dal manico della chitarra ma non dai cuori di chi aveva riposto una speranza nel bambinesco vagito di “Dream All Day”, “Solar Sister” e “Flavor of the Month” (brani di “Frosting on the Beater”).
La causa principale non può essere certamente la stanchezza: visti a Benicàssim, Auer e Stringfellow dimostrano ancora di saperci fare e il loro carisma animalesco sa colpire lì dove deve. Purtroppo la magia non si ripete in sede di scrittura. Non siamo persone che si fanno problemi nell’ascoltare brani già sentiti, ma quello che rovina tutto è l’inferiore qualità dei dodici episodi incriminati. Certo, a volte la band cerca di infilare riffoni power pop che per lo meno fanno muovere il piedino (“All in a Day’s Work”, “I Guess You’re Right”, “Second Time Around”, “I Finally Found A Jungle I Like!!!”), ma quando si provano escursioni easy listening (“Last Crawl”) o mid-tempo che reclamano vendetta da quante volte sono stati abusati senza la necessaria verve creativa (“Sweethearts of Rodeo Drive”, che per lo meno ha un titolo geniale), si percepisce tutta l’aridità della scrittura dei Posies.
Dispiace, più che altro. L’effetto è lo stesso della delusione che si prova davanti ad un obbiettivo non raggiunto: non c’è rabbia o cinismo, solo un po’ di malinconia nel constatare come un gruppo che ti aveva aperto una strada che hai percorso fino in fondo non sia stato capace di tornare ai livelli che hanno fatto nascere l’innamoramento. Perché i Posies hanno dimostrato di saper scrivere canzoni immortali, il posto nel nostro cuore già ce l’hanno e il tempo perdona ogni cosa, ma adesso la delusione va oltre l’idea di misericordia. E forse fa più male a noi che ascoltiamo, questa volta.