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Ho sempre considerato i ginevrini Young Gods una delle band fondamentali della scena musicale europea e il loro esordio omonimo una delle perle nascoste e troppo spesso dimenticate negli scrigni sonori degli ultimi trent’anni. Non nego che la notizia di un’antologia del loro materiale mi abbia colto piacevolmente di sorpresa: non che le ultime uscite (su tutte “Second Nature” licenziato nel 2000) siano risultate poi così convincenti, e non c’è da strabuzzare gli occhi al loro ascolto da parecchio tempo oramai, ma l’idea che possa sorgere un nuovo interesse nei confronti di Franz Treichler e soci sull’onda d’urto di questo “XXY (Twenty Years 1985-2005)” ha in sé qualcosa di elettrizzante.
Il consiglio ovviamente è quello di non seguire l’ordine numerico delle tracce, ma di rifarsi direttamente alla cronologia, incappando da subito nei brani che diedero corpo a “The Young Gods”: innanzitutto il capolavoro “Did You Miss Me” dove la voce cavernosa e malevola ci conduce in un valzer stoppato, sabbatico, sintetizzato e sensuale, forse l’ultima vera frontiera della danza in epoca contemporanea in cui classicità, futurismo e ipotesi gotiche si sposano in un amplesso dal sentore demodé. E poi l’epilessia metal con cui “Envoyé” travolge l’ascoltatore, con il cantato in francese e lo scontro titanico tra il fragore dei riffs di chitarra e la tecnocratica base percussiva, e ancora la magniloquenza di “Fais la mouette” che abbarbica selvaggiamente il suono della band agli anni ’80, con lo stuolo ambientale di tastiere che riporta alla mente tanto i Joy Division quanto gli Swans di Michael Gira.
In appena tre canzoni viene dunque sintetizzato l’intero spleen dei “giovani dei” elvetici: il requiem operistico, la caduta vertiginosa negli inferi e l’oblio drogato e vagamente dandy. Una scelta antologica dunque lungimirante, ma con il materiale dell’epoca a disposizione sarebbe stato folle aspettarsi altro; anche i brani selezionati dall’opera seconda “L’eau rouge” trascinano a pochi millimetri dall’Eldorado, dimostrando ampiamente l’eleganza e lo stile su cui poteva fare affidamento l’ispirazione del terzetto (oltre al già citato Treichler sono da annotare i nomi di Frank Bagnoud e Cesare Pizzi). In particolar modo lo scomposto incedere ossessivo di “L’amourir” sconvolge e non poco, soprattutto se messo in relazione diretta, split screen ideale, con “Charlotte”, dimessa festa paesana che sembra in realtà una scheggia popolare riletta in piena epoca Nintendo: l’apertura di vedute che la band palesa in questa circostanza inizierà a infettarsi di lì a poco, disperdendo buona parte dell’intuito e dell’intelligenza compositiva di Treichler, tra l’altro destinato a diventare orfano dei compagni di ventura.
Dagli altri lavori, soprattutto per i neofiti, è difficile estrapolare qualcosa di realmente notevole: certo, c’è l’omaggio al genio mitteleuropeo di Kurt Weill, qui rimarcato nelle interpretazioni (non del tutto francamente convincenti) di “September Song” e “Alabama Song” – già portata in auge dai Doors nell’esordio e riproposta più volte in ambito pop, vedi la splendida versione data alle stampe da David Bowie -, ma questa scelta non fa altro che rimarcare i punti di contatto e le connessioni già evidenziate tra gli Young Gods e il cabaret malato di Berthold Brecht. Resta da annotare la presenza dell’inedito “Secret”, che apre la raccolta: interessante nel far notare come i germi sparpagliati dagli Young Gods siano finiti nel settore del cervello dedito alla creazione di Trent Reznor, ma niente di più.
A tutti gli amanti degli Young Gods, potete anche esimervi dall’acquistare questa raccolta, tanto tutto quello che di essenziale potrete ascoltare della band svizzera lo avete già in vostro possesso. A tutti i curiosi, se l’ascolto di questa raccolta (e in particolar modo dei brani che vi ho citato) può esservi da spinta per andare alla ricerca del capostipite capolavoro (e scusate il gioco involontario di parole) e del suo di poco inferiore seguito allora precipitatevi nella prima discoteca che incontrate e sganciate i soldi al commesso. Tutto qua.