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(Ri)scopro Raymond Carver in questi giorni, grazie ai dEUS, che ne citano direttamente una raccolta in “What do we talk about when we talk about love”. Entro in un mondo fatto di racconti di vite normali, di eventi minimi spezzati dall’alcool, di liti consumate senza sapere cosa dire, di finali sospesi, di frasi minime che ribaltano le prospettive.
Ecco, anche “Il coraggio dei piuma”, il secondo disco ufficiale dei Valentina Dorme, è così, e non a caso Carver è un amore nemmeno troppo nascosto di Mario Pigozzo Favero, che scrive per questo disco i suoi testi più belli (ma anche quelli più immobili e aderenti alla sua poetica). Insomma, per una serie di coincidenze, torno in questi giorni ad ascoltare “Il coraggio dei piuma”, e lo scopro essere un disco molto migliore di quello che mi era sembrato ai primi ascolti: allora l’avevo trovato bello ma troppo simile a quanto scritto e cantato in passato, mentre ora si adatta perfettamente alla malinconia di quest’autunno indeciso sul proprio arrivo.
I baci sono caldi è buoni, l’amore è trattenuto e non detto come in un film di Antonioni: “Dobermann” introduce nell’album con un crescendo di chitarre sinuose, e si distende nella melodia splendida di “Canzone di lontananza”, un episodio che avvicina il gruppo veneto ai Marlene Kuntz di “Ho ucciso paranoia” e allo stesso tempo tenta vie più lineari alla propria poesia. Il suono è cambiato, rispetto a “Capelli rame”: dove lì era più trattenuto, ne “Il coraggio dei piuma” non ha paura di esplodere con violenza, come nello sferragliare delle chitarre sul finire de “Il mare”, o nel saliscendi emotivo – calma e violenza alternati come maree – de “L’amore a trent’anni”; e ancora, quando sceglie di essere morbido, accarezza come in “Le tue vacanze in Malesia” (ancora il ricordo di Carver, il particolare dell’esplosione in volo appena accennato che modifica tutto quanto) o in “Un tuffatore”, magnifico bozzetto acustico.
È vero, continuano a ripetersi le stesse immagini a distanza di anni, nei testi dei Valentina Dorme; perfino le stesse parole. Ed è l’unico limite del gruppo. Ma, davanti a una canzone come “Teatro leggero”, un tango di sinuosa elettricità dove pare di vederli davanti a sé, i due amanti che ballano per l’ultima volta senza avere il coraggio di guardarsi, non posso che rimanere incantato. Forse il gruppo si sta ripetendo, ma continua a non essere un motivo sufficiente per rinunciare al fragore elettrico di questa poesia. Almeno, non per me.