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“Elvis ci ha liberato il corpo, ma Dylan ci ha liberato la mente” (Bruce Springsteen)
Aveva indubbiamente ragione Springsteen quando arrivò a comporre questo assioma: la storia della musica popolare statunitense del secondo dopoguerra non può evitare due personaggi come Elvis the Pelvis Presley e Robert Zimmermann a.k.a. Bob Dylan. Il primo raccolse tutti i grammi di genialità che gli circolavano intorno, non ultimi i singulti (omo)erotici di Little Richard, li edulcorò e riuscì a venderli a milioni di esseri umani, dai sottoproletari che facevano la fame sui treni merci della West Coast ai figli dei nobili e degli alto borghesi che avevano veramente tanta voglia di liberarsi dalle convenzioni e di dare libero sfogo alle proprie pulsioni giovanili. Dal canto suo, poco meno di un decennio dopo l’avvento de “l’uomo di Tupelo” – come lo avrebbe classificato un giovane Nick Cave – un ragazzone del Minnesota appena arrivato a New York iniziò a trascinare folle oceaniche cantando dei padroni della guerra, del fascismo americano, dell’idiota paura del comunismo, della falsità del potere, in ogni sua forma (“però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”, cantava qualche anno dopo Fabrizio De André alla fine della sua commedia morale “Storia di un impiegato”).
Bob Dylan, Fabrizio De André, Bruce Springsteen, ma anche Nick Cave: tutti musicisti che hanno dato un peso determinante al verso scritto. “Potere alla parola” recita una delle migliori ricerche sulle posse e sul fenomeno dell’hip hop politico italiano curata a metà degli anni ’90 da Pierfrancesco Pacoda; ma tutti questi parolieri, tutti questi amanti dell’invettiva e della ricerca linguistica dove sarebbero senza l’esempio di Woody Guthrie, oramai cristallizzato nel tempo e nella memoria?
È questo un interrogativo che è opportuno porsi quando ci si trova a ragionare sulla musica folk e sulla musica politica del novecento: chi meglio di lui ha gettato le basi per il cantautorato? Praticamente tutti i songwriter esistenti sulla piazza devono qualcosa a questo chitarrista nato quasi un secolo fa (nel 1912, per l’esattezza) a Okemah, cittadina dell’Oklahoma che deve tutto ciò che ha – e che non è propriamente molto – alla scoperta dei bacini petroliferi (vi ricordate il paesetto nel quale si istallava, direttamente da New York, Lucy Gallant nel film omonimo di Robert Parrish?).
Solitamente il nome di Guthrie viene associato a quello di intellettuali newyorchesi come Pete Seger e Alan Lomax, ma in realtà le radici culturali e politiche non sono le stesse dell’ambiente liberal della Grande Mela: Guthrie viene dalla campagna, non dalla grande città, e ha visto con i propri occhi i picchetti degli operai, il crumiraggio, le angherie dei padroni e dei proprietari terrieri. E ha visto la povertà in ogni sua forma: quella canta, lontano da sirene intellettuali e vicino, per linguaggio e per inerzia, alla gente comune, gli sfruttati, i derelitti. È un vero e proprio figlio di Joe Hill, e preferisce il vagabondare alla permanenza – che pure gli avrebbe probabilmente garantito una vita più sicura -: gira il paese con Cisco Huston e raccoglie frammenti di vita, istantanee. Così nasce “Dustbowl Ballads”, il più importante lavoro cantautoriale che la storia della musica regalerà fino alla chitarra elettrica sposata al folk nel “Bringing it All Back Home” di Dylan: chitarra acustica, banjo, armonica e la voce nasale e mai alla ricerca della grazia facile e falsificata bastano a Guthrie per segnare i prodromi di una branca della musica moderna e contemporanea.
Le Dustbowl sono le tempeste di sabbia, terribile calamità naturale che costrinse buona parte della popolazione più povera dell’Oklahoma a cercare fortuna a ovest – soprattutto nella dorata California di Los Angeles e San Francisco – abbandonando la terra natia e ritrovandosi straniera tra compatrioti, guardata con sospetto e costretta lo stesso a patire la fame. Le quattordici tracce di questo lavoro capitale sono un compatto viaggio nei meandri delle ingiustizie e dei paradossi della società statunitense, atto d’accusa contro la stessa istituzione democratica che democratica non è. Ma sarebbe un errore anche considerare Guthrie come semplice cantore della politica più vicina alle poche esperienze comuniste che pure in quel periodo riuscivano a fare breccia nel sistema capitalistico americano – come non ricordare il newyorchese “Federal Theatre” nel quale mosse i passi un già geniale Orson Welles? -; nei suoi canti c’è molto spazio per la memoria nostalgica verso la propria terra, e per le emozioni dei protagonisti delle vicende narrate. Il suo è un canto per le masse, è vero, ma non disdegna l’individuo: non a caso quando Guthrie deve trovare un simbolo che raffiguri in pieno il suo ideale politico e sociale si aggrappa al “Tom Joad” di John Steinbeck. La musica di Guthrie è un talkin’ blues logorroico che non distrugge le regole interne del folk ma preferisce adattarle alla propria indole, dilatandole e compattandole a seconda della bisogna.
Pochi possono vantare la capacità di visualizzazione che il cantautore di Okemah mette in mostra, regalandoci al contempo uno dei primissimi (il primo?) concept album della storia della musica; forse Leadbelly, forse Robert Johnson, certo non molti altri. Tra figli genetici (Arlo, ovviamente, e il suo splendido “Hobo’s Lullaby”) e intellettuali (già citati in precedenza alcuni di quelli musicali, ma sarebbe da notare come il suo stile di vita sarà negli anni ’40 preso ad esempio da buona parte degli scrittori beat, con Kerouac e Cassidy in prima fila) a Guthrie si deve la propagazione della canzone politica così come la conosciamo noi, e questo è un dato che non può essere messo in discussione da nessuno. Nel 1967 Woody Guthrie morì dimenticato da tutti (o quasi) in un ospedale del New Jersey. Pochi se ne resero conto, ma l’America della cultura perse un tassello non insignificante di libertà.