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Il destino è strano, e ha poca riverenza, né delicatezza, verso le esistenze delle persone. Un padre che ha visto per una volta sola nella sua vita il figlio; il figlio che passa la vita a combattere con l’ombra del padre. Eppure, tutti ricordano Tim e Jeff Buckley assieme, perchè sono troppe le cose che li accomunano: il destino tragico, la morte giovane, la bellezza delicata, le voci coraggiose che nessun suono poteva incatenare.
Due eroi perfetti per uno stuolo di romantici appassionati di rock, che sono caduti in ginocchio davanti alle meraviglie di dischi come “Goodbye and hello”, “Starsailor” e “Grace”. Chi scrive è tra loro, inutile negarlo: amo e ho amato padre e figlio, alla follia. Sanno cullarmi, farmi sorridere e ridurmi in lacrime. E immagino sia lo stesso per tutti gli artisti che hanno partecipato a questo album di cover dei due: un disco particolarmente bello, dove nessuno ha esagerato negli stravolgimenti o nelle sperimentazioni, rendendo questo “Dream brother” un ringraziamento leggero a chi ha creato così tanta bellezza in così poco tempo.
Tra tutte queste cover, l’unica a non convincere è quella di King Creosote, che toglie ogni carica vitale a “Grace”, ma il resto del programma è da applausi: davvero incantevoli i Magic Numbers che sussurrano timidi “I sing a song for you”, il gospel digitale di The Earlies su “I must have been blind”, il vortice nebbioso di “Song to the siren” degli Engineers, uno Sufjan Stevens in stato di grazia tra i flauti lievi di “She is” e una Kathryn Williams che cinguetta con incantata semplicità “Buzzin’ fly”. Sono in pochi ad occuparsi delle canzoni di “Grace”, invece, come se tutti avessero preferito dare una loro versione di cosa avrebbe potuto essere “(sketches for) My sweetheart the drunk”, l’album postumo di Jeff Buckley; in alcuni casi le cover sono perfino migliori degli originali, come per “Yard of blonde girls” (rifatta da quel Johnny Cash con la faccia da bambino che risponde al nome di Micah P. Hinson) o “Morning theft”. Prevedibilmente, chi tenta di forzare di più i confini sono Matthew Herbert e Dani Siciliano: la loro “Everybody here wants you” è spezzettata in frattali digitali, mentre la voce che evita fino alla fine il climax del ritornello.
In definitiva, “Dream brother” è un ottimo disco, a cui si finisce per tornare spesso anche se, come il sottoscritto, non si è particolarmente amanti di dischi di cover o di compilation. C’è un senso di gratitudine verso due grandissimi artisti; c’è rispetto, e devozione. E tutto questo rende “Dream brother” un disco molto più sincero di tanti altri.