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Dicono che “…tick …tick …tick” sia un disco per cultori. Non hanno torto. A pensarci bene, Steve Wynn è un affare da cultori più o meno da sempre. Lo era 25 anni fa con i Dream Syndicate (quando fu indicato, sopratutto da due riviste musicali di stampo american oriented, come il salvatore del nostalgico buon vecchio rock di una volta), lo è adesso che di dischi solisti ne può contare dieci oltre ad una fama ed una reputazione ormai consolidate. Non che la figura di artista di culto gli stia stretta, però è curioso notare come un artista non dissimile da molti altri cui il successo planetario ha a più riprese sorriso (su tutti, Neil Young e Bruce Springsteen), sia relegato al circuito dei soliti quattro sfigati che da anni popolano le numerose esibizioni live del Nostro in terra italiana.
Dopo quest’ottimo esempio di sociologia da Drive-In, passiamo ai fatti: “…tick …tick …tick” è un disco solido, ruvido, incisivo: la vecchia scuola del rock’n’roll che alza la testa e fa vedere come, nonostante i quarantacinque anni, sia ancora in grado di incendiare i cuori e di scrivere canzoni addirittura memorabili.
Parlare di sorpresa sarebbe però inopportuno. Non tanto per il tipo di musica, quanto per il fatto che Steve Wynn è come il buon vino: più invecchia, più è buono. Ne sono dei palesi esempi gli ultimi lavori. Opere del calibro di “Here Comes The Miracles” e “Static Transmissions” non solo sono tra le migliori mai concepite dal nostro uomo, ma godono di una furia creativa che farebbe impallidire buona parte dei giovani rocker che si riaffacciano alle tradizione della “old school”.
Detto questo, “…tick …tick …tick” può vantare le poderose cavalcate elettriche (“Turning of the Tide”, la bellissima “Freak Star”, “No Tomorrow”) – quelle che odorano di ragazze alla cannella uccise da un killer di nome Cortez – che da queste parti si ascoltano sempre con l’epifanica gioia della prima volta e i treni in corsa che si alimentano di una psichedelia “vecchia scuola” di cui orma Wynn detiene il marchio di fabbrica. E’ il caso di “Wired” o “Wild Mercury”, con i loro assoli lancinanti e totalmente dissennati, le loro atmosfere notturne ma non crepuscolari (anzi, verrebbe quasi da tirar fuori il clichè del bandito western… ma viene in mente la copertina di “Happy Trails” dei Quicksilver Messenger Service o il Buscadero, ubi maior) e la potente e robusta ossatura di una macchina da guerra di nome The Miracle 3.
Secondo certa gente, questo tipo di musica dovrebbe sparire assieme alle lacrime di nostalgia che i vecchi baffoni reduci degli anni ’70 on-the-road versano ad ogni manifestazione artistica di David Crosby. Lasciamoglielo pure credere. La nicchia che ci siamo scavati quasi fosse un ghetto non autorizzato è sempre pronta ad accogliere personaggi come Steve Wynn. Non sarà affollata come quella dei fan di Springsteen, ma per una bottiglia di birra e un concerto di infuocato rock’n’roll – che sì, sarà anche nostalgico e retroattivo, ma è fantastico così com’è! – di delirante blues acido o di ammaliante folk da mezzanotte è spesso più che sufficente.