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Quando si è trattato di intervistare Steve Wynn ho dovuto dividere due persone. Il fan e il giornalista. Difficile coniugare tutto quello che avrei voluto chiedergli da semplice appassionato della sua musica – aneddoti e stronzate che probabilmente non interessano un fruitore generico – e quello che effettivamente doveva risultare utile alla buona riuscita di un’intervista. Il risultato di questa chiacchierata è qui esposto. Sperando di aver messo a segno un’intervista comunque interessante, vi auguro una buona lettura alla scoperta di un’anima rock che, nonostante gli anni, è viva come non mai e non ha nessuna intenzione di abbassare la guardia:
Cominciamo con il tuo rapporto con l’Italia e, in particolare, col Big Mama di Roma. Dove e come è iniziata questa storia d’amore? Moltissimi amici mi ribadiscono che vederti lì è sempre qualcosa di speciale.
Ho suonato al Big Mama per la prima volta nel 1990, quando stavo facendo il tour del mio primo disco solista (“Melting In The Dark”, ndI). Era il primo concerto in assoluto a Roma ed è stato il primo di una lunga serie. Sempre al Big Mama. In effetti ho suonato più show lì che in qualunque altro posto nel mondo, non è strano? Sicuramente non l’avrei mai immaginato, ma è vero. Mi piace suonarci perchè la sua impostazione di “night club” mi permette di suonare in diversi modi senza perdere efficenza. Posso suonare solo ballads ed avrebbe senso come far casino con la band. Tutto è possibile. E poi la gente lì è gentilissima ed è diventata una specie di seconda famiglia quando sono on the road.
Parlando sempre del passato, ti ricordi gli anni ’80 e le tue esperienze italiane con i Dream Syndicate?
Era veramente una figata! Tutto quello che facevo coi Dream Syndicate lo facevo per la prima volta: il primo album, il primo tour, la prima volta che sentivo una mia canzone per radio. Ed è stata anche la mia prima volta in Italia, di cui mi sono subito innamorato. Era il 1986. E’ fantastico venire in questo bellissimo paese con questa gente così gentile e simpatica, con tutta questa grandissima arte e del cibo squisito. E ho anche trovato gente che era appassionata alla mia musica. Non me l’aspettavo!
Perchè i Dream Syndicate si sono sciolti?
Era l’ora. Tutto qui. Eravamo riusciti a fare parecchio. Abbiamo fatto un sacco di ottima musica e sentivamo che era tempo di cambiare qualcosa, di evolversi. L’ultima cosa che volevo era far diventare un’esperienza così positiva, una noia mortale e ripetitiva che avrebbe distrutto ogni bel ricordo.
Cosa pensi dell’esperienza dei Paisley Underground venticinque anni dopo?
Era eccitante. Eravamo tutti uniti da un sincero ed entusiastico sentore: pensavamo di essere le uniche band a fare una musica che avremmo davvero voluto ascoltare. Era una cosa davvero bella ed onesta… vera. Eravamo parte di una scena. Scrivevamo e suonavamo musica assieme, bevevamo assieme, c’era sempre qualcuno a casa di qualcun’altro e tutti eravamo sempre ai concerti degli altri. E penso che molta di questa musica sia invecchiata benissimo e suoni alla grande ancora oggi.
Ti è capitato di ascoltare qualche gruppo e di pensare: “Maledizione! Questo lo facevo anni fa!”?
Certo. Ed è sempre stranamente piacevole. Sento eco della nostra musica nei primi dischi di Pavement, Yo La Tengo, Galaxie 500 e molti altri. Qualche volta è puramente casuale, magari amiamo tutti gli stessi dischi. Ho ascoltato una band come i Secret Machines. Probabilmente non conoscono la mia musica, ma portano avanti la bandiera della musica che amiamo.
Quindi pensi che quello che facevi coi Dream Syndicate abbia influenzato la musica e l’attitudine di chi è stato in grado di condividere questa esperienza?
Credo di sì. Facevamo qualcosa che, ai tempi, nessun’altro faceva. Feedback, distorsioni, canzoni lunghe e caotiche. Non erano cose molto popolari nei primi anni ’80, tutti pulitini, precisini, truccati e con la manicure. Penso di aver aperto la strada e le possibilità ad altra gente.
Sei ancora in contatto con i membri della scena? Sono curioso di sapere che diamine di fine ha fatto Karl Precoda (chitarrista nei primi due dischi dei Dream Syndicate). Che sta facendo dal 1984?
Karl è un professore universitario e suona in una band chiama Last Days of May. Non gli parlo da quidici anni, mentre sento più spesso Dennis Duck (il batterista, ndI)… più o meno ogni volta che vado a Los Angeles. A volte sento anche Kendra (la prima bassista, poi negli Opal, ndI). Quando scende dalle montagne dove si è ritirata a vivere.
E adesso torniamo al presente. “…tick …tick …tick” è il tuo decimo album solista. Come ti senti?
Penso che i miei ultimi tre dischi (“Here Comes The Miracle”, “Static Transmission” e “…tick ..tick …tick”, ndI) siano i migliori che abbia mai fatto. Sono orgoglioso di quello che ho fatto coi Dream Syndicate, ma credo che questi ultimi siano migliori, sotto ogni aspetto. Ed è una bella sensazione considerando la mia età. Spero che il prossimo sia ancora meglio!
Molti artisti smettono di fare rock’n’roll più o meno attorno ai trentacinque anni. Tu ne hai quarantacinque e sei ancora qui. Sembra quasi che tu “mangi” rock’n’roll. Che ne pensi di questa attitudine? Che differenze ci sono, secondo te, tra chi smette di far casino e chi, come te o – ad esempio – Paul Westerberg, che continuano imperterriti?
Guarda, mi piace anche una musica più soft e contemplativa. Non penso che sia meno rock’n’roll, ma devo ammettere che c’è qualcosa di veramente liberatorio nel registrare dischi più selvaggi, rumorosi e fuori controllo. Penso che questo fatto venga percepito anche da chi ascolta. E’ la musica che amavo quando avevo dieci anni ed è quella che amo ora che ne ho quarantacinque… non c’è motivo per smettere.
“… tick …tick …tick” è la fine di una trilogia iniziata con “Here Comes The Miracle”. Che succederà ora? Continuerai a fare rock’n’roll o tornerai all’acustico?
Non so mai niente fino a quando non entro in studio. Penso che il prossimo disco possa essere più cantautoriale ma è difficile dirlo. Dipende da quello che mi piacerà e mi influenzerà quando sarà ora di inciderlo.
I tuoi ultimi tre lavori sono i più rock dai tempi di “Melting In The Dark”. Intendo canzoni come “Wired” o “Wild Mercury”. Sembri ancora un teenager al suo primo concerto. Dove trovi l’energia?
Mi piacerebbe rispondere: junk food & whiskey, ma conduco una vita un po’ più sana in questo periodo. Semplicemente amo la musica e vado sempre su di giri quando la suono. E’ grandioso vedere che reazione susciti spingendo in alto il volume, la velocità e l’energia. E’ quello che dai al pubblico. Ed è quello che ti ritorna.
Ci sono anche ballate come “Freak Star” o “No Tomorrow”. Penso siano una specie di atto d’amore verso Neil Young – sopratutto quello di “Everybody Knows This Is Nowhere” e “Zuma” – ballate elettriche con assoli psichedelici ed atmosfere acide. Non fraintendere! E’ Steve Wynn al 100%, ma la mano di dio è sempre presente. Che rapporto hai con questo genere di canzoni?
L’altro giorno era il compleanno di Neil (11 novembre, ndI). Abbiamo suonato una cover di “Tonight’s The Night” senza nemmeno provarla. Penso che le canzoni di Neil Young – e quelle di Bob Dylan, e quelle di Lou Reed – siano così semplici e primordiali da proiettartci dentro quando le stai suonando. E’ una formula molto semplice, ma è l’interpretazione che ti permette di dare un tuo stampo alla musica. Non penso sia lo stesso a fare canzoni dei – o ispirate dai – Genesis o Yes.
Che ne pensi dell’ultimo suo disco, “Praire Wind”? A me, sinceramente, è piaciuto poco.
Non sono d’accordo! Lo amo. Soprattutto la title-track. E’ fantastica.
Tornando a “…tick …tick …tick”, quanto è importante il contributo dei Miracle 3 al processo di composizione?
Penso che la band sia più importante nella fase d’arrangiamento. Le canzoni sono praticamente tutte compiute quando le porto in sala. Ma, come ho detto prima parlando di Bob Dylan, di Neil Young e di Lou Reed, le mie canzoni sono molto semplici e dirette che permettono alla band svariate interpretazioni.
Penso che Linda (Pitmon, batterista dei Miracle 3, ndI) sia una delle migliori batteriste per questo tipo di musica: non perde mai un colpo. La musica parte da una tua idea personale o, come negli anni ’80, cominciate a jammare tutti assieme e da lì prendete le idee?
Beh, mi è sempre piaciuto far parte di una band piuttosto che pensare a me stesso come un solista. Ma se ci pensi, “Melting in the Dark” era una collaborazione tra me e i Come e “Gutterball” con gli House of Freaks. Ora suono con una grande band (e sì, confermo, una grandissima batterista) ed è molto più eccitante vedere che direzioni prende la musica che facciamo.
Presto suonerai di nuovo in Italia. Che tipo di spettacolo ci stai preparando? Solo il tuo ultimo disco o dobbiamo aspettarci sorprese?
Negli ultimi anni abbiamo spesso alternato canzoni nuovissime – gli ultimi tre dischi – a canzoni vecchissime, tipo i primi due album dei Dream Syndicate. Ma questa volta ci saranno molte sorprese. La scaletta cambierà giorno per giorno in relazione al nostro umore e al pubblico in sala. E’ difficile quindi dire che piega prenderanno i concerti.
Ed è lì che vi rimando. Al concerto. Perchè da sempre è la vera dimensione di chi intende il rock’n’roll come qualcosa di più importante che un semplice mestiere, ed è anche l’unica situazione in cui il vetriolo urticante delle chitarre elettriche può bruciare al massimo della sua potenza. Semplicemente per sentirsi vivi un giorno in più, grazie ad una canzone.