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Com’è ovvio, per unire insieme due generi musicali diversi si deve compiere di necessità un percorso creativo che muova dall’uno o dall’altro dei due poli di attrazione. Nell’ambito del movimento jazz-rock, i Soft Machine hanno rappresentato, nel corso della loro lunghissima carriera iniziata nel lontano 1966, la quintessenza di uno di questi due percorsi: semplificando si potrebbe dire che abbiano costituito, insieme ai Weather Report, il binomio più caratterizzante dell’intero genere. Gli statunitensi partendo dal jazz, gli inglesi dal rock. Un rock “sui generis” fin dagli esordi, uno dei pilastri di quella che, a cavallo fra musica informale, jazz-rock e progressive, sarebbe stata battezzata “scuola di Canterbury”.
Band quant’altre mai soggetta a periodiche variazioni di organico – ma sempre all’interno di una ben definita famiglia di musicisti – i Soft si ripresentano, a partire dalla fine del 2004, con la denominazione Soft Machine Legacy, quasi a voler rivendicare un’eredità musicale peraltro difficilmente contestabile. Primo frutto discografico (in edizione limitata) di questa nuova avventura, il live a Zaandam (Olanda), registrato il 10 maggio di quest’anno, presenta una manciata di inediti più un classico come “Kings & Queens”, eseguiti da una line up composta da Elton Dean (sax alto, saxello e piano elettrico), John Etheridge (chitarra elettrica), Hugh Hopper (basso) e John Marshall (batteria). Non ci si attendano improbabili novità stilistiche, bensì la consueta impeccabile eleganza formale, l’equilibrio perfetto e quell’intatta gioia di fare musica, sempre sul filo dell’improvvisazione, che farà la gioia degli appassionati.
Certo già ci pare di udire i nostalgici dell’incandescente epoca d’oro, quando la “morbida macchina” creata da Robert Wyatt e compagni, prima della decisa presa di posizione per un più normalizzato jazz-rock, sprizzava scintille di musica totale ad ogni battuta, vanificando qualsiasi tentativo di rigida classificazione. Eppure siamo convinti che ben pochi rifiuteranno anche solo un minuto di ammirazione incondizionata per musicisti in grado di trascorrere in perfetta armonia dal semplice riff rock al free più complesso, dall’improvvisazione scatenata al fraseggio melodico più scritto. In questo senso i brani certamente più rappresentativi del disco sono “Ash”, “1212” e “Big Creese”: magistrale, nel primo, l’improvviso, scandito e maestosamente progressivo passaggio centrale di chitarra e basso, pirotecnico il secondo nell’avvicendamento solistico fra Dean e Etheridge, appassionante l’ultimo nella stesura decisamente rock e nelle iniziali folate bebop del sax di Elton Dean.
Poiché ormai da parecchi anni lo spirito dei Soft Machine perdura quasi esclusivamente nella dimensione live, ad esso assai congeniale, avremmo tuttavia desiderato una più evidente presa diretta del pubblico, qui a malapena avvertibile e radicalmente sfumata. Il marchingegno si è comunque risvegliato, e lavora a pieno regime: un’autentica ghiottoneria il nuovo album di studio, in corso di lavorazione e previsto in uscita, unitamente ad una inedita registrazione live del 1975, nel gennaio 2006.