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Esiste una borghesia musicale che ha sempre creduto che qualsiasi passo avanti fosse meglio del passato, che qualsiasi evoluzione cassasse di conseguenza quella precedente. Si sa che essa è gretta, filistea e voltagabbana: dapprima propaganda il progresso ma fa fatica ad accettare le novità, e, una volta accettate, rinnega facilmente tutto ciò che le precede.
Se ragionassimo così, i Warlocks farebbero schifo.
”Surgery” è un pastiche caleidoscopico, un calderone da rito sabbatico in cui sono stati gettati Grateful Dead, Jesus and Mary Chain, Velvet Underground, Spacemen 3, My Bloody Valentine, Beatles (perché bisogna avere remore a nominarli? Forse perché così facendo sarebbero citati dappertutto…), e mescolati ben bene fino a dar vita ad un infuso denso e gustoso: i Warlocks appunto.
Prendetene atto: queste sono le parole di un conservatore. Nel senso che se la batteria stacca in quattro (i Warlocks ne hanno ben due di batterie) e le chitarre (tre) ruggiscono e fanno esplodere accordi e assoli a cascata io mi sento appagato e vorrei mantenere tutto così com’è. Perciò prendete “Surgery” per quello che penso che sia: una ricchissima zuppa ribollente di riferimenti diretti (anche 2 o 3 per brano) e un’evoluzione rispetto al debutto di due anni fa, “Phoenix” , perché qui le capacità di scrittura di Bob Hecksher si concretizzano maggiormente e vanno dritto al sodo.
Ora, è lecito porsi il dilemma se dischi di valore così retroattivo siano da rifiutare in blocco? Certo, ma di fronte al reazionarismo in cui sguazziamo, anche per quanto riguarda la musica, il conservatorismo appare come un limite decisamente semplice da superare.