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Dopo tanta attesa e troppi rumors ci troviamo finalmente fra le mani l’esordio dei Babyshambles. Ricordiamo ancora i fasti di quell’”Up The Bracket” che lanciò il giovane entusiasmo dei Libertines sulla bocca di tutti. E ricordiamo ancora la delusione dell’omonima riproposizione di quelli che, incredibilmente, erano già diventati dei clichè. Cosa aspettarsi adesso? La caduta definitiva o la rinascita?
I primi minuti sanno di cabaret decadente e quasi quasi si pensa che quel riff di basso possa lasciare il segno. Poi “La Belle Et La Bete” inizia a durare troppo. E allora già si intuisce come andrà a finire. Sì perchè la sensazione si ripete per tutta la durata del disco. Qualche guizzo c’è (“Arebours”). Qualche ritmo accattivante anche (“Pipedown”). Peccato che ognuna di queste cose duri per una media di quattro secondi. Sarà quella voce che sa di glam in decomposizione che blatera scialba. Sarà che la produzione di Mick Jones non dona mai la botta sonora, preferendo lavorare su degli intrecci minimalisti di chitarra. Sarà che ascoltando “Down In Albion” sembra quasi di contemplare il vuoto assoluto.
Tralasciando la durata eccessiva dell’album e l’imbarazzo nel sentire del reggae come “Pentonville”, si può realizzare che certe definizioni quali “genio e sregolatezza” forse non sono mai state più gratuite. Perchè non stiamo parlando delle composizioni incomplete di un Syd Barrett. Ma neanche degli abbozzi dell’ipotetico erede contemporaneo John Frusciante. Non c’è motivo, se non la mera curiosità, per cui dovremmo ascoltare un’ora di Pete Doherty intento nelle sue svogliatezze. E ora che ci penso non c’è neanche motivo per cui dovremmo continuare a parlarne.