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I malinconici lidi di Asbury Park non sono certo il posto migliore in cui vivere, nè lo scenario ideale per ambientare una storia rock. La mitologia ci ha spesso abituato a paesaggi mitici, ad affascinanti confini metropolitani o vastissime praterie della Provincia in cui narrare storie di illusi e perdenti, di vagabondi e alcolizzati. Asbury Park non è niente di tutto questo. Uno sputo edilizio del New Jersey, depresso e deprimente come ogni periferia statunitense nata alla pendici di una grande città ma senza aspirare alla sua lucente magnificenza. Chi l’avrebbe mai detto che nel cuore di questa comunità potesse nascere addirittura una scena musicale? Lo chiamano Asbury Sound, ed è una miscela infuocata di rock’n’roll, soul music, folk, blues, r’n’b e pop. I maggiori esponenti di questa scena suonano tutti assieme, collaborano e sono amici. Non c’è differenza e si conoscono tutti come fratelli. Da un lato c’è Steven Van Zandt (poi conosciuto come Miami Steve ed infine Little Steven), dall’altro c’è Southside Johnny e i suoi Asbury Jukes e alla fine c’è quello che tutti considerano il più talentuoso, il più bravo, il più: Bruce Springsteen.
Quelli del 1975 non sono giorni felici. La CBS, sua casa discografica, è arrivata ad un livello di notevole intolleranza verso quel ragazzo scritturato da John Hammond come “il nuovo Dylan”. I suoi primi dischi hanno venduto pochissimo – nonostante siano la quintessenza dell’Asbury Sound, una miscela di Van Morrison, Elvis Presley e Bob Dylan, i sogni logorroici di un adolescente cui la provincia americana stava decisamente troppo stretta – e i grossi manager di New York hanno deciso di dargli un’ultima possibilità.
Springsteen ci guida lungo le strade di Asbury Park ridendo sotto gli occhiali da sole e raccontando i giorni che precedettero l’entrata in studio per il disco più importante della sua carriera: “Se avessi cannato anche questa possibilità mi avrebbero sbattuto fuori.” dice pensando a quello che invece poi è successo. La città è silenziosa. Lontana dalle immagini di grandezza e di vita che si immaginano ascoltando le otto canzoni di “Born To Run”. Lì è New York in tutta la sua potenza, in tutta la sua vitalità, in tutte le sue “vibranti pulsioni sessuali”, per dirla alla Woody Allen. Un anno di lavorazione a ritmi massacranti. Canzoni ripetute e registrate più di trenta volte. Session della durata di giornate intere. Ritmi di lavoro massacranti. “Mangiavamo, dormivamo, bevevamo Born To Run” ghigna Roy Bittan, ultimo ingresso della band ma decisivo per la caratterizzazione di quello che di lì a poco sarebbe stato il marchio di fabbrica della E-Street Band. Bittan prende il posto di David Sancious, così come il batterista Max Weinberg sostituisce Ernest “Boom” Carter, con i quali Springsteen aveva già registrato – assieme al suo manager-produttore dei primi anni, Mike Appel – “Born To Run”, la canzone. Fa quasi tenerezza sentire Max ammettere: “Abbiamo lasciato ‘Born To Run’ così com’era perché non sono mai stato in grado di riprodurre un fill di batteria di Ernest al centro della canzone”, ma quello che cercava Bruce non erano dei virtuosi dello strumento, ma uomini che riuscissero ad avvertire la sua sensibilità e quello che lui voleva dalle canzoni che aveva scritto.
Ed ecco che ci ritroviamo in studio in compagnia di Springsteen e Landau – manager e produttore aggiunto che ha dato una svolta decisiva alla lavorazione del disco – che, al banco mixer, ci fanno sentire i segreti di “Born To Run”. Ci sono le take alternative di “Jungleland” (da un intro che definire cinematografico è dire poco, ad un cantato completamente diverso e contemplativo), ci sono le stratificazioni di chitarre – ipercompresse, alla Mike Appel – utili alla riproposizione del “Wall Of Sound” di Phil Spector, grande ossessione di Springsteen, che “ci sono ma non si sentono” e ci sono una quantità inusitata di strumenti e di arrangiamenti che ad una prima ascoltata si stenta a credere che possano effettivamente essere presenti su disco. Fa un certo effetto, ed è addirittura emozionante, perché dipinge l’esatta atmosfera che si viveva in studio in quei tempi. Una grossa tensione, certo, ma anche legata da una grandissima amicizia e un senso di fratellanza che rende “Born To Run” qualcosa di unico nel suo genere. Se prima Springsteen ha sempre lavorato per dare forma alle sue liriche sognanti, adesso dirige una band cercando di mettere tutto al posto giusto, non lasciando nulla al caso, chiedendo agli amici uno sforzo fisico e mentale che poche altre volte si è sentito ed affrontato nella storia della musica rock.
“Sono stato sedici ore davanti a quel maledetto microfono. Io e Bruce abbiamo costruito l’assolo nota per nota, sfumatura per sfumatura. Non era mai soddisfatto e lo registrammo un numero impressionante di volte. Ero stravolto. Ma ancora oggi c’è gente che mi ringrazia e mi dice che quell’assolo gli ha salvato la vita.” A parlare è Clarence Clemons. Protagonista è, manco a dirlo, il solo di sax di “Jungleland”. Due minuti in cui questo soul-man si dimentica di essere un musicista tutto sommato mediocre e sputa tutto se stesso in una sublimazione catartica di note e sentimenti. Arriva nel momento più importante della canzone. Il climax è alle stelle e la storia – quella di due gang rivali nella New York della strade secondarie – è arrivata ad un punto nevralgico. E si tratta di un assolo così carico di energia e vita che, veramente, è in grado di salvare vite… un po’ come il rock’n’roll. Quello che in realtà stava mandando Springsteen sull’orlo di un esaurimento nervoso. Fosse stato per lui, il disco non avrebbe mai visto la luce, l’hanno trascinato a forza fuori dallo studio il giorno della prima data della tournèe completamente insoddisfatto dei master, con la volontà di rifare tutto da capo e, anzi, di registrare un disco dal vivo e pubblicarlo come “Born To Run”. La casa discografica non era d’accordo e, anche se non pienamente soddisfatta del lavoro, pubblica il disco così come è stato consegnato. Qui è documentata la nascita di un sogno, l’esperienza di una vita, una strada da percorrere a tutta velocità.
Ed è osservando il dvd allegato, che documenta un live londinese del 1975, che possiamo renderci conto di come l’amalgama della E-Street Band – nella sua formazione più famosa (Bruce Springsteen, Clarence Clemons, Roy Bittan, Max Weinberg, Gary Tallent, Roy Bittan e l’amico Little Steven) – sia il carburante essenziale per gli infuocati concerti entrati nel mito e nella leggenda. Certo, lo springsteeniano doc ribadirebbe che la potenza dei tour tra il ’78 e il 1980 è difficilmente reperibile, ma è da qui che tutto è partito. Ci sono le infuocate versioni, piene di r’n’b e nigger vibration, di “10th Avenue Freeze Out”, “The E-Street Shuffle”, “Sprit In The Night” e “Kitty’s Back”, ci sono i sogni adolescenziali di “Rosalita” e la malinconia di una “Thunder Road”, solo voce e piano, da lacrime. Ma ci sono anche i rock’n’roll che lasciano senza fiato come “She’s The One”, “Born To Run” e “It’s Hard To Be A Saint In The City”. Ma quello che fa effetto, oltre a poter vedere per tutta la sua durata l’unico filmato ufficiale dello Springsteen degli anni ’70, riguarda il pubblico, seduto per la gran parte del concerto ma sinceramente coinvolto da un performer straordinario che salta, strepita, urla, suda, si danna, ride e arriva a commuovere. Tutto nella stessa serata. Qualche anno fa Springsteen aveva dichiarato: “Noi saliamo sul palco con l’idea di fare il miglior concerto della nostra vita. La gente non può vederci ogni giorno, quindi dobbiamo darle qualcosa di indimenticabile”. E a vedere questi sette rocker abbigliati come delle comparse del “Padrino” quando ancora non erano nessuno, si capisce quando sputare sangue su un palco sera dopo sera, sia servito a creare quel pathos incredibile che si avverte sentendo le canzoni degli album di Springsteen. Gli show sono indimenticabili perché lo sono lo sono i brani della scaletta. E la fisicità – tutta americana – del rock con cui sono proposti, non fanno altro che diminuire la distanza artista/pubblico che quelle dannate sedie sembravano accrescere.
“Questo è il posto da cui stavo cercando di scappare” ci dice Springsteen mentre sullo schermo appare il cartello Freehold, NJ. La voglia di correre, in un posto come quello (“It’s a town full of losers and I’m pulling out of here to win”), è il sintomo primo della tua volontà di vivere. Della tua sete di sognare e della tua lotta giornaliera contro le ali tarpate da chi certa di imporre un modo di vivere che semplicemente non fa per te. Credo che senza “Born To Run” la storia del rock sarebbe decisamente diversa. Molta gente non avrebbe mai preso in mano una chitarra e molti sogni di molti adolescenti sarebbero rimasti nel subconscio. In quelle canzoni c’è una potenza che quasi spaventa. C’è un’ingenuità – che lentamente si sta trasformando in consapevolezza – che lascia senza fiato per i capolavori cui ha dato luce. Bruce Springsteen non tornerà più in questi posti, ha definitivamente lasciato la sua adolescenza e l’ha congedata nel migliore dei modi. Ha cominciato a correre lungo la sua “Thunder Road” e nessuno è più riuscito a fermarlo. Poi arriveranno le disillusioni post-industriali di “Darkness On The Edge Of Town”, ma questa è un altra storia…