Share This Article
L’uscita di questa raccolta in un periodo di vera e propria abbondanza di ristampe e antologie, dall’oramai abituale scontro con i “Bootleg Series” dylaniani fino all’essenziale corpo riesumato del capolavoro “No New York” (e per glissare sugli Young Gods e compagnia bella) rischia di passare colpevolmente sotto silenzio. E sarebbe un crimine non da poco, soprattutto per i musicofili delle prime file: nei venticinque brani di “Cronache del videotopo” è condensata la vita dei I Refuse It!, tra le band capofila del movimento ribattezzato GDHC, dove l’acronimo di difficoltosa pronuncia sta a significare Gran Ducato Hardcore. E sì, perché l’hardcore e il punk italiani del periodo avevano trovato comoda residenza in quel delle verdi colline toscane, subito dopo l’ondata rumorosa bolognese e un attimo prima o meglio in contemporanea con i CCCP che gettavano radici nella rossa Emilia.
Insieme ai I Refuse It! sarebbe il caso di ricordare quantomeno i CCM e i Traumatic ma il discorso si farebbe lungo; è da encomiare invece l’iniziativa della Wide che riporta alla luce materiale che rischiava seriamente di rimanere feticcio per pochi, pochissimi intimi. La band capitanata da Stefano Bettini mostrava all’epoca una freschezza che tuttora si fa sentire; il peso degli anni non ha minimamente intaccato la spina dorsale della musica del quintetto. Questo perlomeno per quanto riguarda la prima fase dell’avventura, quella racchiusa in un mucchietto di anni, per la precisione dal 1982 al 1985: dopo, con il rimpasto e la perdita di Sandro al basso, Wally Dread alla batteria e in particolar modo Boz Lapinski alle tastiere e agli effetti sonori (passato dalla passione per l’hardcore a quella per il reggae!) tutto procede a strattoni, stancamente e senza scossoni di particolare interesse – nello specifico, le tracce da 21 a 25 del cd -. Ma quei primi tre anni sono lì immutabili a dimostrare la fertilità della musica sotterranea italiana, lontana sia dai fasti del mercato che dalla logica industriale che altresì nelle capitali della musica aveva in un qualche modo già iniziato a regolamentare la struttura anarcoide dei padri del genere.
Qui, liberi da vincoli di qualsiasi tipo, è possibile incrociare i ritmi serrati e l’ansiogena necessità di urlare al mondo le proprie esigenze, ma anche follie che immergono nella Mosca del 1800 (“Chocu umeret”), retaggi di prassi popolare (“Mira il tuo popolo”), inni sbilenchi e addirittura catarsi per basso e sax con contrappunti di tastiere (“Sogni a doppie vie”), polvere di stelle cinematografica che innesta punk spaziale con scorie classiche di Edward Grieg a far capolino (“M”, dove il gioco impostato è ovviamente con il capolavoro omonimo di Fritz Lang), gorgo infernale e caduta nel maelström (“Questo è l’inferno…questa è Eleusi”). E poi la title-track, liberatoria e trascinante.
“Scrutiamo con occhi impazziti la nostra fugace realtà” recita il ritornello de “Le cronache del videotopo” e forse nessuna frase posticcia potrebbe sintetizzare con maggiore intensità e precisione il senso della vita artistica dei I Refuse It!; nella vacuità propria degli anni ’80, simbolo dell’affermazione globale del capitalismo, decennio che stratifica il significato di industria anche nei territori artistici, prodromo politico di ciò che ancora oggi stiamo vivendo, la prima e più tangibile possibilità di reazione è quella di scrutare la realtà cercando di inserirsi nelle falle del sistema, nei condotti d’aria che portano alla (pur illusoria) libertà. Il punk nella nostra solare terra fu il vero e proprio momento di rottura nei salotti culturali della musica, capace di scrollarsi di dosso il peso soffocante dell’autorità cantautoriale e i vezzi e i merletti del prog – che pur aveva dato i natali a quegli Area che per tutta la musica italiana rimangono esempio di inadattabilità a schemi predefiniti – e di urlare, stonando selvaggiamente. E questo, per la patria del bel canto, non è poi cosa da poco.
Tanto di cappello dunque alla Wide ma prima ancora a J. Zarco, Stefano, Sandro, Wally Dread e Boz Lapinski. In attesa di altre ristampe di questo livello, concludo con la base programmatica segnata in calce all’ultima pagina del libretto: “Autonomia vuol dire sperimentazione delle forme impensabili del pensiero, delle potenzialità nascoste dell’intelligenza, delle potenzialità compresse della tecnologia, sperimentazione di nuovi modelli di socialità. Essa vive oggi soltanto come eccesso e come rifiuto. Essa vive nelle parole di Zang Chung Chiao di fronte al tribunale speciale di Pechino: Mi rifiuto mi rifiuto mi rifiuto”.