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“Tom Violence” è la canzone che apre “EVOL” dei Sonic Youth con le indimenticabili parole “My Violence is A Dream”: tutto questo accadeva però venti anni fa. Oggi Tomviolence – scritto tutto attaccato – è un combo nostrano, dedito a sonorità post-rock piuttosto marcate. L’esordio omonimo su Black Candy è un’ottima occasione per entrare in contatto con una band che anni fa avrebbe potuto tranquillamente dire la sua anche all’interno del panorama internazionale, perché sicuramente non manca di professionismo e capacità tecnica.
Anni fa, però: oggi, una pur scintillante rappresentazione dell’universo post-rock priva di qualsiasi spinta innovativa, non può sperare di trovare ad attenderla una critica entusiasta. Perché ciò che è contenuto nelle nove tracce che compongono il lavoro non ha più una reale aderenza con la sua contemporaneità e non ha neanche la forza per svelare un nuovo punto di vista sul passato recente di cui è intriso. Si rimane nel mezzo, costretti ad annotare la mancanza di inventiva, ma desiderosi di far comprendere come ci sia la possibilità di ascoltare buona musica.
Cerco di essere ancora più chiaro: i nove brani di “Tomviolence” sono la messa in musica di uno stilema musicale che fino a cinque/sei anni fa aveva ancora il suo perché. Messa in musica che non ha però il coraggio di distaccarsi minimamente da quanto già ascoltato in precedenza. Gli idolatri del post-rock vi ritroveranno tanto gli Slint quanto i June of ’44, solo per citare i due nomi più grossi, e probabilmente se ne beeranno. Ma non è questo che si dovrebbe chiedere alla musica, o quantomeno non solo questo: accettare senza remore un album come “Tomviolence” è un’ammissione di comodità, di pigrizia intellettuale, di implosione mentale.
Già dopo una sola traccia è palese quello a cui si andrà incontro: giochi di stop & go (come in “Quite Good not Song”, per esempio), melodioso intrecciarsi di strumenti – tra cui fiati e archi -, improvvise sfuriate elettriche sempre pronte a smorzarsi, geometria a go-go, fraseggi strumentali in odore di elefantiasi. Insomma, il post-rock come lo avrebbero insegnato a scuola, niente di più e niente di meno. E allora, costretto a ridimensionare un esordio su cui si sono spese parole fin troppo esaltanti, non resta che rimarcare l’ottima resa sonora e l’indiscutibile professionalità della band. Ma, almeno per me, è veramente troppo poco. Una (mezza) delusione.