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Due anni fa, chiudendo la recensione sul primo lavoro omonimo dei livornesi Appaloosa, annotavo come il futuro si sarebbe prospettato roseo se il terzetto avesse intrapreso una strada che deviasse, anche solo parzialmente, dal “luogo comune” del post-rock. È una gioia oggi rendersi conto di come le previsioni fossero azzeccate.
Irrobustiti nella line-up dall’ingresso di Simone Di Maggio a sintetizzatori, drum machine e campionatori gli Appaloosa sfornano una seconda prova da primi della classe, dando una dimostrazione di maturità notevole. Il cliché post-rock viene stravolto, attaccato dai germi del meticcio, dell’ibrido; forse l’unica maniera ancora valida per usarne le basi senza scivolare sul terreno della ripetitività e della prassi. Il noise, il surf-rock, accenni di elettronica si fanno largo tra le maglie geometriche e matematiche che caratterizzavano l’album precedente deturpandone la purezza ma al contempo amplificandone la portata. Ascoltare per credere l’attacco di “Brigidino”, ossessiva e snervante cavalcata che si imprime con estrema facilità nella mente; non c’è più niente di post(iccio) nella musica del quartetto toscano, la sfida aperta e palese è alle abitudini stesse della musica contemporanea, alla suddivisione in compartimenti stagni, alla classificazione – neanche stessimo parlando di elementi chimici -.
Non che il gioco riesca sempre perfettamente agli Appaloosa, ma è interessante notare come i punti meno ispirati dell’album siano proprio quelli in cui la composizione si rifà più direttamente alla memoria dell’esordio (come ad esempio nell’ultima traccia, lasciata in maniera evocativa senza titolo); scintillanti invece risultano gli esperimenti ad incastro tra la vecchia istanza e la nuova, e ancora più stravaganti digressioni come la sfiancante “La Roby”, la divertente “Victor and angel” nella quale si ipotizza un matrimonio abnorme tra il surf anni ’60 e il frastuono della contemporaneità, e una “4 Women” sospesa tra elettronica vagamente ambientale e fraseggi chitarristici che rimescolano per l’ennesima volta nell’immenso catino post-rock.
Un lavoro dunque che allarga gli orizzonti della band, che si avventura in sentieri musicali calpestati da meno uomini e dimostra di avere qualcosa da dire, per nulla banale o scontato. Dopo la promozione con riserva dell’esordio, arriva stavolta quella definitiva, perché la band sembra anche avere le idee notevolmente chiare e non pare in odore di ritornare sui suoi passi. Complimenti alla Urtovox per la scelta operata e al lavoro, in fase di produzione, portato avanti da Giulio Ragno Favero, in grado di trovare il suono perfetto per ogni brano. E se fosse ironicamente il pubblico ad affermare, dopo l’ascolto, “non posso stare senza te”?