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Halma è il buio totale, è la notte che bussa alla porta. Facile aprire, il combo tedesco suona dello slowcore fascinoso che esplora gli anfratti più reconditi di ogni profondità: come rinunciare a tale intensità? Musica strumentale, musica da film, i suoni degli Halma nascono proprio con questa specie di missione notturna, come per fare da colonna sonora a delle immagini che non ci sono ma che si ricreano nella testa illuminate solo da un fioco lume. Batteria perennemente con le spazzole (tranne in “Sub Dub”, dove il rullante martella dolcemente in modo concreto), loop di arpeggi di chitarre, sottofondi spettrali, gli Halma sembrano i Massimo Volume più cinici senza (purtroppo) lo splendido parlato di Emidio Clementi. Lo si aspetta, la calma orrorifica lo chiamerebbe, ma poi ci si ricorda che siamo di fronte ad una band di Amburgo e non al rimpianto gruppo bolognese.
In ogni caso, tutto bene. Perché è un po’ come quando si leggono le poesie di Baudelaire, quando si guida di notte in mezzo alla bassa con la nebbia alle calcagna, quando ci si racconta tra amici le storie di fantasmi. L’inquietudine cercata. In “Beaufort” si riesce a cogliere la linea melodica, ma in generale per gli Halma non è importante, e in effetti non è necessario. Perché i particolari si perdono se ci si vede poco, rimangono le sensazioni, i suoni sommessi, i fruscii. Rimane il sottofondo.
Naturale che una musica per certi versi così cerebrale ricerchi anche delle citazioni artistiche: “Lands End” si appella all’avvolgente mito del poeta-country Hank Williams. L’unico canto (parlato!) che si ode in tutto il disco è in questa canzone e risuona programmatico (“Lasciami viaggiare in questa terra dalle montagne al mare”). Gli Halma rendono merito a William “Ramblin Man” perché, a guardare bene, sono anche loro erranti e vagabondi.
Ci sono cose dei Tortoise, risonanze dei 16 Horsepower, “Back To Pascal” è “un monumento estetico compatto, opaco atmosferico… melanconico, severo e tranquillo”, e mai una definizione potrebbe essere più azzeccata. A tratti si sta ascoltando la colonna sonora di un film noir (“Bass Strait”, con due notine di basso che potrebbero far pensare a “Walking On The Moon” dei Police), ma a volte ci si imbatte anche in qualche scena horror (il perenne glockenspiel di “Fumarole”).
E’ una melma in cui è piacevole immergersi, questo “Back To Pascal”, e i gabbiani che volano nel verde paludoso del retrocopertina non devono trarre in inganno: si potrebbero trasformare da un momento all’altro in avvoltoi. Però non si riesce ad avere paura dei quattro tedeschi, perché è indubbio che ci si sguazza dentro molto compiaciuti a questa melma.
Rimane un solo appunto, che è una necessità fisica che si impone dopo avere ascoltato “Back To Pascal” tutto d’un fiato: accendere qualche lampadina, cercare sorgenti di luce, uscire dalle fanghiglie.
E’ una reazione normale, perché dopo aver trattenuto il respiro per lungo tempo bisogna sempre prendere una boccata d’aria. O, meglio, perché dopo la notte deve sempre seguire il giorno.