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Quanti di voi hanno ancora negli occhi le (poche) evoluzioni che Haris Skoro regalò, nel corso di un paio di stagioni, ai tifosi del Torino? Giunto in Italia seguendo la scia lunga degli acquisti di giocatori slavi, a ridosso della splendida Yugoslavia di Prosinecki e Stojkovic e della Stella Rossa campione d’europa, Skoro faticò e non poco a ritagliarsi uno spazio degno di questo nome, surclassato dalla media reti del brasiliano Muller e in seguito di Casagrande; abbandonato al suo destino, le sue tracce si sono perse per un’Europa ancora lontana dai carri bestiame prodotti dalla legge Bosman. Robert Skoro, per quanto ne so, non ha nessun grado di parentela con Haris, ma a suo modo mi ricorda molto da vicino il centravanti slavo: come lui, arriva da noi non per meriti propriamente suoi, ma seguendo la scia lunga del rock cantautoriale statunitense. Come il suo quasi omonimo, i gol li mette a segno, ma senza la regolarità che dimostrano i colleghi più prestigiosi. Sempre come l’attaccante torinista sembra essere a tratti spaesato, incapace di dimostrare in pieno il suo valore.
Non è che si abbiano molte notizie biografiche su Robert Skoro: si sa che ha ventitré anni, che è originario del Minnesota e che ha esordito, sei anni fa, nell’ensemble del cantautore Mason Jennings, con il quale ha collaborato alla realizzazione dell’album “Birds Flying Away”. Questo “That These Things Could Be Ours” è il suo secondo lavoro solista, e si muove su dinamiche strutturali prossime all’intimismo di un certo cliché indipendente. Nulla di memorabile o di particolarmente originale, in realtà, anzi è vero tutto il contrario. Incapace a distaccarsi da un easy listening totale, Skoro si trova spesso e volentieri a girare a vuoto, o meglio a girare sempre intorno allo stesso asse, con il risultato che l’ascoltatore si assuefa ben presto alle melodie pulite partorite dalla mente del giovane songwriter e la noia inizia a far capolino da dietro la porta.
Lo scarto che permetterebbe all’album di dire qualcosa di interessante non è presente per il semplice fatto che Skoro non sembra proprio ricercarlo minimamente: la strumentazione standard (composta da chitarre, bassi, batterie, sintetizzatori e pianoforti di varia forma e sostanza) si muove su binari fin troppo logici, come se fosse impossibile pretendere qualcosa di diverso da loro. Difficile, data questa premessa, distinguere un brano dall’altro; è come se, con a disposizione un intero set di microfoni, si sia deciso di parlare senza supporto. Il risultato è un sussurro di poco conto, e che difficilmente potrà trovare un pubblico suo. Il mainstream sembra ancora lontano dalla portata mediatica del ragazzotto, e così viene naturale chiedersi quale potrà essere il destino di Robert Skoro, ventitreenne del Minnesota. E torna a farsi preponderante il confronto con l’Haris Skoro di cui accennavamo la storia in partenza: anche lui fallì nel momento in cui restò indeciso se imboccare la strada del calcio che contava (il mainstream) o rimanere relegato nel fenomeno di culto di pochi aficionados. Il rischio che Robert segua le sue orme anche e soprattutto nella miseranda fine è alto, almeno a giudicare dal non certo soddisfacente risultato raggiunto con questo ultimo lavoro.
Perché di ballate ammantate di candore e senza ombre ci sarà anche bisogno, ma qui la presenza schiacciante provoca un effetto melassa difficile da digerire: e quando il giovanotto si ricorda che la musica è fatta anche per essere variata è troppo tardi. “The Package” chiude infatti l’album, con una sferzata d’energia – standard anch’essa, per fugare eventuali dubbi – che non rappresenta un lavoro decisamente immaturo.
Eppure, probabilmente sempre per quel dannato apparato mnemonico che regola la nostalgia e che mi riporta davanti agli occhi una doppietta del buon Skoro in un Torino-Genoa 5-2, mi sento in dovere di parteggiare per la sua versione americana e canterina. E allora alla prossima Robert…