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Non perderò molto tempo a descrivere la musica presente in “Ballads for Little Hyenas”, visto che tutto quello che devo fare è rimandarvi alla recensione che fu redatta al momento dell’uscita, l’anno scorso, di “Ballate per piccole iene”: tutto ciò che ascolterete in questo disco infatti non è altro che la versione inglese dei brani incise all’epoca in italiano, tranne un brano aggiunto per l’occasione e pescato dal calderone di Lou Reed, una buona versione di “The Bed” condivisa con Greg Dulli.
Il perché è presto detto: Manuel Agnelli e soci vogliono sfondare oltreoceano. Le conoscenze ce le hanno (Dulli in primis), il terreno non gli è completamente ignoto e poi qualche aficionados del rock sotterraneo avrà forse memoria degli esordi della band, prima per la Toast (“All the Good Children Go To Hell”) e poi per la Vox Pop (“During Christine’s Sleep”, l’EP “Cocaine Head” e quel “Pop Kills Your Soul” che in pratica sancì la svolta poi portata a compimento in “Germi”).
In più, nelle nostre lande, hanno un numero non indifferente di fans che fa sicuramente il tifo sfegatato per loro. Sono due fondamentalmente le cose interessanti nell’approcciarsi all’ascolto di “Ballads for Little Hyenas”: la prima è qualcosa che va forse oltre la stessa razionalità, ed è una questione di abitudine. Non è poi così semplice spiegarlo, ma ad ascoltare le undici tracce – tutte rigorosamente tradotte in inglese fin dal titolo – si prova la stessa sensazione che si ha guardando Robert De Niro nel suo splendido accento in “Taxi Driver” per poi trovarselo con le stesse movenze e gli stessi sguardi schiacciato dal peso della voce di Ferruccio Amendola.
Perché se è vero che la voce di Agnelli è pur sempre la sua e che il lavoro più che di mera traduzione è stato di adattamento alla lingua inglese, è impossibile non notare come tenda, al cospetto di una lingua che non gli appartiene completamente, a giocare a fare il camaleonte con icone musicali riconoscibilissime (su tutto valga l’esempio della quasi title-track in cui si prostra davanti all’altare di Iggy Pop), in un percorso al contempo autoprotettivo e capace di tendere la mano al pubblico anglofono.
Ed è proprio questo il secondo punto sul quale vale la pena soffermarsi: il suono degli Afterhours da esportazione, con quel cantato così facilmente inquadrabile, perde in forza. Certo, l’album suona bene, per il semplice fatto che è composto bene e suonato bene, ma in un mercato fagocitante come quello USA non rifulge certo per originalità della proposta. In pratica, rischia di passare completamente inosservato, perché eccessivamente anonimo. E neanche a dire che il prodotto possa essere rivenduto, di straforo, nella madre patria. Prova di questo ne è il trattamento riservato alla band al Fillmore di Cortemaggiore (Piacenza) di fronte all’esecuzione dei brani in inglese: bordate di fischi, urla che incitavano al cantato in italiano. Il risultato? Agnelli si è tolto la chitarra e si è gettato con intenzioni bellicose sul pubblico, generando un parapiglia francamente patetico.
Insomma, “Ballads for Little Hyenas” rischia di passare alla storia come una delle uscite più utili e allo stesso tempo inutili della storia della musica italiana. Certo, magari sono io a sbagliarmi, l’album diventerà un culto e tra dieci anni gli Afterhours verranno invitati alla Hall of Fame per farsi fotografare. E magari, con il suo stile sprezzante e divertito, Agnelli rifiuterà la proposta. Chissà…io glielo auguro, e nel frattempo aspetto paziente.