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Prima o poi qualcuno dovrebbe spiegare a tutti la differenza tra country ed alt.country. Non può certo essere un mero fattore di vecchiaia. Sarebbe una discriminazione aprioristica decisamente imbarazzante. Anche perché di alt questo disco di Jenny Lewis (già cantante dei deliziosi Rilo Kiley) che di anni nemmeno ne ha trenta, non ha assolutamente niente. Per dire, in questi giorni il mio stereo sta passando anche il nuovo di Neko Case e lì sì che un po’ di atmosfere alternative sembrano venire fuori: ci sono i Calexico, ci sono arrangiamenti sghembi, ci sono atmosfere un po’ troppo naif e così discorrendo.
Insomma, una bella differenza con questo “Rabbit Fur Coat”, che sembra essere pervaso dallo spirito della migliore Emmylou Harris. Ma il motivo per cui il disco può guadagnarsi estimatori, anche tra chi del country ha dolo un vago ricordo storpiato da qualche film western in quarta serata d’estate, è l’angelico faccino della Lewis. Non per buttarla nel maschilismo, ma di dischi così ne escono a centinaia e anche di più belli e, solitamente, non se li fila nessuno. Jenny può contare su una carriera sponsorizzata da nomi noti come Conor Oberst e su una copertina in cui appare in tutta la sua bellezza piperita: vestito rosso, chioma rossa, aria vagamente spersa e adorabile.
Sia però chiaro che “Rabbit Fur Coat” non appartiene alla categoria dei dischi brutti e non punta le sue carte sul fascino della sua autrice, solo non me la sento di consigliarlo a scatola chiusa in assoluto. Jenny canta bene, la sua voce è affascinante e le canzoni sono scritte con il dovuto mestiere, ma non ha niente di speciale che possa scuotere le membra di chi ascolta. Ecco, se c’è qualcosa che manca, è il carisma, ma se passa per caso in uno stereo si può anche lasciar scorrere. Già. Scorrere…