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Se le anime pagane del Pop Group si aggirassero ancora oggi per i salotti internazionali della musica, con ogni probabilità il suono che produrrebbero sarebbe lo stesso che è possibile trovare in “Drum’s Not Dead”; il terzo lavoro sulla lunga distanza dei Liars è, a due anni da “They Were Wrong, So We Drowned”, la conferma dell’imponenza del combo newyorchese.
Che poi più tanto newyorchese non sembra voler essere, visto che ha attraversato l’oceano per andarsene a registrare a Berlino; a contatto con la mitteleuropa, con il punto d’incontro tra occidente e oriente, i Liars abbandonano definitivamente qualsiasi velleità ritmica in grado di ricondurli alla prassi new wave della Big Apple e continuano il loro viaggio nell’oscurità. L’album è infatti un’ossessiva e fantasmatica marcia in un mondo ovattato, dominato da riverberi e dalla marzialità della batteria, dove la voce si trasforma in un elemento atmosferico, sussurrante ed etereo – ricordando, in questa sua veste strumentale, il Thom Yorke degli ultimi Radiohead -.
Non è più semplice catalogare la musica dei Liars: come ho avuto modo di dire in precedenza, anche le ultime scorie post-punk che erano riuscite a trascinarsi fino all’album precedente (“There’s Always Room on the Broom”, per esempio), sono ormai un ricordo lontano. A tratti sembra l’avant-folk la strada che la band intende percorrere, altre volte c’è spazio addirittura per una sorta di dream-pop teutonico (“Drum Gets a Glimpse”), in altre occasioni ancora sono nenie più drogate e malevole del Nick Cave più malevolo e drogato (tanto per restare, nelle citazioni, tra i nomi di marca Mute), pronte a trasformarsi di punto in bianco in elegie immerse nel fondo più cupo di una foresta (“It Fit When I Was A Kid”).
Insomma, è praticamente impossibile cercare le coordinate esatte verso le quali hanno deciso di muoversi Angus Andrew e soci; la loro traiettoria è impazzita, un missile cromoguidato attratto dalle tinte oscure. Se è vero che è nel nero che sono racchiusi tutti i colori, allora i Liars hanno tra le mani la tavolozza definitiva, e il loro dipinto passo dopo passo non potrà che acquistare in perfezione, per quanto sia arduo ipotizzare un futuro ancora più sorprendente rispetto a quanto messo in mostra negli ultimi due lavori.
Anche da un punto di vista narrativo la sfida lanciata sembra tutto tranne che banale: la scelta di affidare l’intero album a due figure speculari e antitetiche come il Drum del titolo e Mr. Heart Attack racchiude in sè una serie di significati e di simboli pressoché infiniti. L’infarto, crepa corporea e profondamente carnale, simbolo dell’emotività e della passionalità proprie del calore umano si scontra con la batteria, elemento meccanico, reiterato, ipercinetico e ossessionante. La macchina che fino a “They Were Wrong, So We Drowned” minacciava l’uomo, irrompendo all’improvviso, ha ora preso il sopravvento una volta per tutte: dell’uomo restano solo poche memorie spettrali, come la voce e i già citati riflessi folk, letti però in un’ottica stonata e per nulla pacificante. Il rumore industriale che chiude “Hold You, Drum” e la successiva monotematica apatia di “It’s All Blooming Now Mt. Heart Attack” rappresentano la vittoria della società sul singolo, la vittoria della produzione sul pensiero. Quest’ultimo prova ancora a resistere, a farsi largo tra le celle in cui è imprigionato, e addirittura a prendersi una piccola rivincita nella delicatezza finale di “The Other Side of Mt. Attack”, che chiude l’album con un soffio di speranza. La voce riprende la sua corposità, la chitarra non è più lanciata in feedback impazziti, il mondo non è sovrastato da suoni e boati – che pure si fanno largo in sottofondo, come minaccia perpetua.
Forse, come nelle favole, è ancora possibile ritrovare la strada di casa ripercorrendo il sentiero di briciole di pane. Ma perdersi nel bosco fa paura, e la salvezza non sarà mai completa. A meno che Angus Andrew, Aaron Hempill e Julian Gross non vengano ancora una volta a salvarci, dannandoci l’anima. O a dannarci, salvandoci l’anima…