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Il post-rock. Non fosse mai nato. Anzi: e se non fosse mai nato? La critica musicopeta (non nel senso che gravita attorno alla musica ma che scoreggia sentenze e classificazioni) ne partorisce a bizzeffe di questi assiomi, infide scorciatoie che puntano ad un tipo d’informazione piuttosto diffuso ultimamente, fatto di semplificazioni e impoverimento dei concetti. Tanto alla fine di tutto si dovrà sempre zittire queste vocine per poter prestare maggiore attenzione alla musica, soprattutto se quest’ultima merita. “Mr. Beast”, appunto, catalizza le tue attenzioni, i tuoi sensi, e ti immerge fino al collo nelle atmosfere che ormai la compagine scozzese, alla quinta uscita discografica, ha fatto proprie. Ti fa piacevolmente dimenticare tutte le possibili definizioni che si potrebbero affibbiargli.
Si parte, e “Autorock” ci avvolge col suo incedere e introduce uno degli interpreti principali di “Mr. Beast”: il pianoforte. “Glasgow mega-snake” deflagra all’improvviso: 3’ e 36” mozzafiato, una sfuriata chitarristica che non può non farci pensare a cosa possa succedere on stage. Splendida inversione di marcia: “Acid food” è una canzone in tutto e per tutto, come non se ne erano mai sentite nel repertorio dei Mogwai, la cui linea vocale si dipana su un delicato tappeto di drum machine e di accordi elementari e diretti, e in cui compare addirittura una slide-guitar. “Travel is dangerous” stupisce ancora, con un canto onnipresente, il ritmo di batteria spezzato e un ritornello spaziale. E’ un continuo cambiamento di rotta: in “Team handed” la voce si fa da parte per dare spazio ad un pianoforte che sviluppa un’intensa ballata strumentale. Il pianoforte, appunto: il vero protagonista dell’album, che dipinge una “Friend of the night” di colori freddi e notturni nelle strofe per poi esplodere in un caleidoscopico turbinare di luce nel ritornello, dando luce a una delle gemme più luminose non solo dell’album, ma dell’intera carriera degli scozzesi.
Dopo la delicatissima “Emergency trap” ci si potrebbe chiedere cos’altro abbia ancora da dire questo album finora magnifico. La valanga di idee che i Mogwai hanno esposto e sviluppato fin qua basterebbe tranquillamente per due o tre album di post-rock standard da prima pagina, e forse ne avanzerebbero ancora. Invece “Mr. Beast” non si spegne. La spinta viene da “Folk death 95”, propulsiva e incalzante, esplosiva ed urticante nello splendido finale. La recitativa “I chose horses” abbassa un po’ il tiro, ma subito ci pensa la conclusiva “We’re no here” a rialzare i volumi, a frantumare i suoni.
La storia dei Mogwai avrebbe potuto essere quella di un qualsiasi gruppetto al posto giusto nel momento giusto e per questo incensato dalla critica, come accadde ai tempi dei primi album, per poi essere buttato nel dimenticatoio all’affiorare sulla cresta dell’onda di un nuovo trend o di un nuovo revival modaiolo da sbattere in copertina. Già “Happy songs for happy people” aveva contribuito a portare la loro carriera su altri binari, ma con “Mr. Beast” il valore della proposta è definitivamente confermato: qui c’è tutto, dalle composizioni più pacate alle scariche di adrenalina e rumore bianco a cui siamo abituati, il tutto senza sbavature, senza eccessi. E, molto probabilmente, si tratta del meglio che i Mogwai ci abbiano mai donato.
(Michele Sarda)
20 marzo 2006