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Un anno fa, all’età di 36 anni, Gebhardt, batterista dei Motorpsycho decise di lasciare la batteria e di intraprendere una carriera solista, girando la Scandinavia con il suo Banjo. Di conseguenza Bent, coetaneo bassista dell’ex-trio norvegese, per rimpiazzarlo decise di suonare egli stesso la batteria nel nuovo disco. Questo riassunto della puntata precedente dovrebbe darvi l’idea del genere di individui che da 15 anni scorazzano per l’Europa con l’etichetta universalmente riconosciuta di stakanovisti del rock. Il trio, che già in precedenza aveva licenziato il tastierista ed arrangiatore svedese Baard Slagsvold, diventa così un duo, e sforna il decimo album, il quinto sopra la durata di 80 minuti, atteso da ben 4 anni nei quali erano usciti solo progetti paralleli (“The International Tussler Society” e “In the Fishtank” con i Jaga Jazzists). Con che risultato?
Innanzitutto è completamente svanita la vena “pop” che i sovrabbondanti arrangiamenti di Baard avevano conferito agli ultimi tre album, una vena che si erà comunque abbondantemente esaurita con il precedente “It’s a Love Cult”. L’intero disco è uno di quelli su cui si dovrebbe scrivere “play it loud”! E’ infatti il disco più violento e veloce dai tempi degli esordi di “Lobotomizer”. Dei 17 pezzi dell’album, almeno 12 sono suonati saldamente sulla corsia di sorpasso. Bent, peraltro una vera sorpresa alla batteria che non suonava da 15 anni, frulla sul rullante quasi senza pause, e il basso distorto la fa da padrone. Eppure, in questo rutilare quasi continuo è ben presente la ricerca armonica e melodica del gruppo, che difficilmente si affida a facili soluzioni preferendo far brillare su basi ritmiche furiose dei piccoli gioielli di stile. Come accade nel capolavoro dell’album “Critical Mass”, un velocissimo muro di suono in 5/4 su cui serpeggia una voce lenta e tesa che esplode in un ritornello barocco; o nella complessa “Kill Devil Hills”, che inizia come un pezzo brit-pop acqua e sapone per diventare il momento più violento e nevrotico dell’album, e chiudere con un’atmosfera tanto vicina a certi momenti di dolcezza degli Yes.
Proprio nei pezzi più potenti il gruppo dà il suo meglio, sperimentando sonorità più vicine alle loro atmosfere live (la chitarra-fuzz di “Coalmine Pony” o l’overdrive dell’ottima “Triggerman”) che a quelle degli ultimi album, che sembrano lontani anni luce. E’ più vicino a Blissard, nel rock dritto, filato e un po’ tamarro dell’opener “No Evil”, o a Trust Us nei cori soffusi di “Sancho Says”. O addirittura ai momenti più psichedelici di Demon Box nella tensione iniziale di “Devil Dog”, risolta con un fragoroso viaggione a volumi vertiginosi. Insomma, verrebbe da dire che si tratta di un ottimo album, una nuova svolta per i caleidoscopici Motorpsycho, eppure c’è qualcosa che non va: c’è un disco di troppo! Tutti i pezzi fin qui citati risiedono nell’ottimo primo CD. E il secondo?
Il secondo non rallenta di un chilometro all’ora rispetto al primo, ma sta vari gradini sotto per ispirazione e brillantezza, tanto da far pensare ad un bonus-CD con gli scarti… Per una volta, i Motorpsycho hanno esagerato col minutaggio, che in passato si era sempre rivelato adeguato alla quantità di atmosfere diverse e ad un progetto ad ampio respiro con la sua giusta chiusura dopo un’ora e mezza. Invece qui, dopo quaranta minuti di ottime mazzate, ci sono altri quaranta minuti di mediocri mazzate di cui nessuno sentirà la mancanza. Con la notevolissima eccezione di “You Lose”, raffinatissimo mid-tempo dalle sonoritè inedite per il trio (sì, è l’unico pezzo che si avvale di un batterista esterno) tanto da farli avvicinare stilisticamente ai Radiohead sognanti di “Optimistic”. E’ anche l’unico pezzo a “velocità ridotta” degno di nota, perchè “The 29th Bulletin” è decisamente troppo pretenziosa nel voler ricordare i fasti di “Vortex Surfer”, e “Before the Flood” è un’inutile sbrodolata del chitarrista Snah. Se decidete di andarlo ad acquistare, provate a chiedere solo il primo CD, magari vi fanno uno sconto…