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“La gente di colore è stata capace di creare con la sua musica una comunità estetica di resistenza, che ha incoraggiato e fatto crescere una comunità politica di lotta attiva per la liberazione. Gli spiritual, il blues, il jazz e il rap formano un continuum di lotta che è allo stesso tempo estetica e politica”. Scriveva così, nel 1989, Angela Davis, una delle più note pensatrici afroamericane ed ex-membro delle Black Panthers; per la comunità nera, l’arte è servita a resistere agli stereotipi esterni, ad avere consapevolezza di sé, a sopravvivere.
Ursula Rucker sa tutto questo, e la sua arte trasuda questa consapevolezza in ogni attimo: l’aver unito poesia militante alla sensibilità della club culture europea l’ha resa nota ed ora, con il terzo album, la sua musica si immerge totalmente nelle radici della propria comunità. Il suono è più organico, la voce srotola con un calore incredibile meravigliosi spoken word mentre la musica ripercorre tutte le strade del suono black: il funk in “Rant (hot in here)” (con un giro di basso che da solo vale tutto l’album), i sensuali velluti jazz di “Black erotica”, il tribalismo delle percussioni di “Libations”, l’hip-hop orgoglioso e consapevole di “I ain’t yo’ punk ass bitch” o della travolgente “Church party” (solo una voce riverberata, per ricordare di quando l’hip-hop era vita, e non – come in “Poon tang clan” – semplice mercificazione televisiva), fino al morbido tappeto electro di “For women” che cita fin dal titolo uno dei capolavori di Nina Simone.
“Ma’at mama” è il miglior disco di Ursula Rucker, più omogeneo nei suoni e con una speranza più luminosa che compare qua e là nel disco: l’essere madre di quattro figli ha dato alla poetessa di Philadelphia un motivo in più per lottare per il cambiamento, e lei ha scelto di farlo con le parole. Sentite qui: “La musica è un’industria, soffre di mancanza d’arte / cultura della pistola, capitalismo, sessismo, razzismo / guerra, guerra, guerra / Fallujah, Baghdad, Abu Graibh, guerra civile / Sudan, AIDS, Africa, AIDS / misoginia e, sì, stavo dimenticando la sodomia, perché tutti la prendiamo nel culo costantemente/ sì, l’ho detto, qualcuno doveva farlo / fai esplodere questi idioti, inizia una rivoluzione”. Parole sparate al volto, le realtà che vogliamo dimenticare proprio quando non dovremmo farlo.
Non è un’arte comoda, quella di Ursula Rucker. Ma è necessaria, perché il primo passo per cambiare sta nel dire che le cose non vanno. Angela Davis la chiamava progressive art, e questo “Ma’at mama” la porta avanti al meglio. E realizza un sogno: in “Humbled” la voce di Ursula combacia con quella di Sonia Sanchez, attivista del Black Arts Movement e sua madre spirituale. Intensità emotiva, poesia, riconoscimento, legittimazione. Un disco meraviglioso.