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Caro Manuel,
ne sono perfettamente consapevole: scrivendo questa recensione sotto forma di lettera sto palesemente violando tutte le regole base del buon giornalismo. Spero mi vorrai perdonare, ma dal momento che lo spettacolo dell’altra sera al Teatro Comunale di Carpi era interamente basato sullo scambio epistolare tra te e Clementi, questo approccio mi è sembrato il più appropriato. Spero tu voglia anche perdonarmi il fatto che questa lettera è indirizzata a te solo: non è per trascurare l’importanza nella performance del tuo collega e amico, ma solo perché di Clementi so poco o nulla, mentre conosco te. Ti conosco, naturalmente, per via della musica degli Afterhours, ma anche personalmente. Ti ricordi? Sono quel giornalista che ti ha intervistato a bordo piscina in occasione della data di Reggio Emilia del Tora Tora del 2004. Quello che, alla fine della lunga e bella chiacchierata, vergognandosi appena un po’ ti ha chiesto di posare con Elena per una foto. Elena, la mia ragazza che, ti confidai, avevo conquistato con una compilation degli Afterhours. “Mi sa che mi devi molto” mi avevi risposto sorridendo. Già, ti devo molto.
Ti devo moltissimo. Per Elena, naturalmente, ma anche per le emozioni che provo, da anni, ascoltando gli Afterhours. Quelle stesse strazianti confessioni di inadeguatezza, di rifiuto dello stordimento, di tribolata accettazione della propria natura umana che anche l’altra sera, in forma diversa, mi hai buttato in faccia, con il tuo stile consueto, in coppia con Clementi. Ma è proprio la forma il punto chiave del discorso. Lo sai perfettamente, Manuel, che “ci sono molti modi” per dare forma artistica ai “conflitti interni che lasci a macerare”. Se così non fosse, un qualsiasi “giovane coglione” armato di carta e penna varrebbe quanto il più grande dei romanzieri. Potremmo definirlo, ancora prendendo in prestito una tua frase, una sorta di complesso del “ho tutto in testa ma non riesco a dirlo”. Per intenderci, canalizzare tutte le proprie emozioni per plasmarle in canzoni è un splendida forma d’arte, soprattutto quando il risultato sono le canzoni degli Afterhours. Limitarsi a mandare su grande schermo il “filmino delle vacanze”, metterci sopra una base drum & bass e leggere il diario del viaggio invece no. Certo, non sono mancati i momenti divertenti e toccanti: il doppio monologo finale, con botta e risposta tra te e Clementi è stato molto efficace, così come le versioni minimaliste di “Bye Bye Bombay” o “Varanasi Baby” eseguite con le immagini del vostro viaggio in India sullo sfondo. Ma si è trattato solo di episodi, che non danno l’idea del totale. Episodi che, semmai, confermano come i momenti più interessanti della serata fossero comunque legati ad una elaborazione artistica più profonda, più ispirata.
Non fraintendermi, Manuel, sono e resto totalmente convinto della tua integrità artistica, nonostante l’album in inglese e l’ingombrante presenza di Greg Dulli negli ultimi Afterhours. Però, volendo essere maliziosi, mi viene da pensare che prendere il “filmino delle vacanze”, sbatterci sopra una base cool e mostrarlo al pubblico pagante sia un metodo molto ingegnoso per rientrare dalle spese di viaggio. A patto, però, di non chiamarla arte.
La verità è che dovremmo dirci la verità. Con questa frase, ripetuta come un mantra a Clementi, hai chiuso lo spettacolo. Concordo in pieno. Per questo, condivisibile o meno, ti ho voluto dire la mia, di verità. Sono sicuro che apprezzerai il gesto.
Con immutata stima
Giampaolo Corradini