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Roma e la sua cultura, nell’Italia del 2000 e poco più, sono spesso e volentieri identificate nelle vicende grottesche nelle quali finiscono i personaggi di Carlo Verdone e negli zoticoni ignoranti che infestano la casa del Grande Fratello. Il romano è, per tutti coloro che si avvicinano solo superficialmente alla materia, una lingua becera, volgare, e colui che ne usa abitualmente l’idioma qualcuno di non istruito, un coatto per dirla in parole povere. Ovviamente chiunque agisca in questo modo non fa altro che semplificare in maniera vagamente razzista un universo culturale dai confini ben più allargati di quanto sia comodo ritenere. Aveva assestato un bel colpo a questo luogo comune idiota l’anno scorso la raccolta di Remo Remotti “Canottiere”, così come negli anni avevano fatto i bei lavori degli Acustimantico, ma nessuno dei due esempi aveva focalizzato il centro della questione quanto lo splendido lavoro d’esordio degli Ardecore. Che non si possono certo definire degli sprovveduti, nonostante questa sia la loro prima uscita discografica: il nucleo fondante è composto dagli Zu, insieme al cantante folk Giampaolo Felici, a Geoff Farina e ai jazzisti Luca Venitucci e Valerio Borgianelli.
Questo impasto di derivazioni diverse (il rock, il folk, il blues, il jazz) permette alla creatura neonata di inserirsi prepotentemente nel panorama musicale nostrano, squarciando i veli della prassi e della normalità. Raggiungendo l’obiettivo di mettere a fuoco, per le giovani generazioni (ma non solo), una serie di brani della cultura popolare capitolina spesso e volentieri misconosciuti ai più. E già, perché anche sulla musica romana c’è alla base un fraintendimento abbastanza diffuso: identificata generalmente nella prosaicità beona de “La società dei magnaccioni”, de “La canzone dell’osterie” e di “Ninetto regazzetto der Tufello”, la tradizione musicale popolare è in realtà attraversata da un filo nostalgico, malinconico, umorale e pessimista. Le storie proprie della romanità sono incentrate su carcerati, passionalità e fatti di sangue.
Lo dimostra senza possibilità di appello la straordinaria “Come te posso amà”, canto del 1700 che condensa in sè tutte le tematiche sopra riportate, in un concentrato di luoghi tipici dell’epoca: il carcere di San Michele a Ripa Grande, il rione Monti, Trastevere. Nel canto tragico di questo carcerato impossibilitato a vedere il proprio amore c’è tutta la poetica di una città, di un’indole, di un modo di interpretare la vita. Già, il carcere, da sempre topòs della cultura romana: c’è anche un detto che afferma “Drento Reggina Coeli c’è ‘no scalino, chi nun salisce quello nun è romano…”. La prigione è possibile ritrovarla protagonista, oltre in “Come te posso amà”, in “Madonna dell’Urione”, dove rappresenta il vissuto del protagonista. Per il resto, il tempo romano è scandito dal ritmo del Tevere, che può essere contemporaneamente compagno (“Barcarolo romano”) e traditore (la splendida epica tragica di “Lupo de’ fiume”), in un rapporto d’amore e odio oramai millenario.
Il lavoro di cernita e rilettura dell’originale portato a termine dagli Ardecore – arde il cuore, eccome se arde, che la musica popolare è passionale e umorale – è da applausi, perché riesce ad adattare un corpus così autodeterminato e storicizzato a un percorso musicale che non nega di mescolare alla struttura folklorica e popolare rimasugli di post-rock, deformi blues à la Tom Waits, ballate omicide di caveiana memoria. Figure storiche della musica romana come Alvaro Amici e Romolo Balzani (con quest’ultimo al centro di un progetto di recupero che potrebbe segnare ben presto un nuovo esaltante capitolo musicale della band) si sposano con l’America rurale, in un amplesso umorale, dove la pancia fa spesso e volentieri le veci del cervello, senza che nessuno noti la differenza.
Se al termine di queste dieci tracce l’uditorio avrà messo da parte anche solo la metà dei pregiudizi e dei luoghi comuni che ha su Roma la sfida degli Ardecore potrà considerarsi vinta. E poi, anche ai ragazzetti dei quartieri popolari che orgogliosamente sfoggiano la loro romanità, (ri)scoprire le radici attraverso la musica – perché sono certo che anche molti romani, al di là di “Barcarolo romano”, ignoravano l’esistenza di questi brani – non farà certo male.
Per concludere mi vengono in mente le parole di un vecchietto che sostava, accompagnato da un amaro e da un caffè, fuori da un bar a Piazza Bartolomeo Romano (centro della Garbatella): all’ascolto di un gruppo di ragazzi che cantava accompagnato da due chitarre e una serie di bonghetti proferì un serafico “so’ caruccetti ‘sti pischelli, ma fanno troppa caciara”. E sorseggiò con sguardo bonario il suo amaro, mentre il compagno di bevuta annuiva scuotendo la testa.