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Tara Burke è la regina dei boschi, è il Puck shakesperiano nascosto in tutti noi, è il folletto bucolico che si aggira tramutato in vento e rugiada.
Tara Burke è la Nico che non c’è più, la figlia hippie, la forma contemporanea che fu solo qualche decennio addietro teutonica e retrò.
Tara Burke è Fursaxa, e tutte le altre chiacchiere che si possono intavolare alle sua spalle hanno un valore estremamente relativo; se parlai di sorpresa e promessa di fronte allo splendido “Mandrake” ora non posso più semplificare la questione relegando questo moniker così bizzarro e colorato nel limbo indistinto delle speranze per il futuro. La statura autoriale raggiunta dalla giovane cantautrice in una manciata di anni è lì, davanti agli occhi di tutti, incorruttibile, la sua classe non può essere messa in discussione.
“Lepidoptera” spunta fuori come un gioiello primaverile a colpire l’uditorio, è una cascata rinfrescante. Può apparire consunto e stucchevole rifarsi a un immaginario così pesantemente marcato dall’aspetto naturale, ma non ho intenzione di mentire, nessun accostamento metaforico sarebbe altrettanto efficace. Fursaxa non è solo l’erede diretta di Christa Paffgen cui accennavo in precedenza, è anche la nipotina meno allineata di Vashti Bunyan, e a tornare indietro nel tempo la sua voce si arrampica sull’albero genealogico delle tribù animiste.
Pur così direttamente derivata dalla prassi folk – l’incedere della chitarra in “Velada” e “Karma”, tanto per fare degli esempi – la sua musica ha in sè qualcosa di mistico e ancestrale, che riporta alla mente più che la materialità esibita del substrato popolare occidentale (britanno e sassone, in principal modo), il panteismo etereo e la ricerca dell’armonia universale propri della cultura dei nativi. Altre volte, come sintetizzato alla perfezione dal flauto guida di “Purple Fantasy”, la cantautrice di Philadelphia trascina tutti via con sè in un mondo fatato che ben poco sembra avere da spartire con questo globo che gira vorticosamente sul proprio asse ma che in fin dei conti ci rappresenta con fin troppa linearità.
La ricerca di un mood che identifichi in sé un ambiente plasmabile e ancora in corso d’opera è nuovamente la sfida che Fursaxa ha lanciato: si affida spesso e volentieri al languido fluire strumentale in odore di reiterazione – i brani difficilmente deragliano dai binari in cui sono stati adagiati – e architetta in aria strutture così fragili che sembrano sempre sul punto di crollare ma che non crollano mai.
C’è un bisogno improvviso di silenzio e di riflessione di fronte a questa sciamana dalla voce elfica, si respira un’aria di magnificenza e pace. Una pace dalla quale si esce gratificati, soddisfatti, riposati. La spinta verso l’infinito alla quale facevo riferimento recensendo la ristampa di “Mandrake” non ha subito rallentamenti né ripensamenti, ma si presenta con una forza e una convinzione ancora maggiori.
E, di fronte allo splendore privo di fronzoli di “Moonlight Sonata” non bisogna vergognarsi di trovarsi le guance rigate di lacrime. Perché, come disse un vecchio saggio che aveva avuto a che fare spesso e volentieri con gli elfi nel corso della sua permanenza in questa terra di mezzo, “non tutte le lacrime sono un male”.
Sia gloria a Tara Burke, in arte Fursaxa, regina dei boschi.