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Uomini con le camicie di flanella unitevi, gli alfieri dei suoni del vostro cuore sono tornati. In attesa del nuovo disco dei Pearl Jam, sono i Mudhoney a tornare alla ribalta. Mark Arm e soci sono stati tra i più regolari artisti del movimento di Seattle, continuando a pubblicare dischi anche quando in giro nessuno voleva sentirne più parlare, di grunge. E sì che mentre Ed Vedder e soci si staccavano dal filone per diventare un fantastico archetipo del rock, i Mudhoney hanno sempre continuato per la loro strada, proponendo anno dopo anno la loro miscela di garage-punk, metal e psichedelia seventies che è parte fondamentale di lavori quali “Superfuzz Bugmuff”. Mc5, Stooges, Black Sabbath, Grand Funk Railroad e Blue Cheer, ecco in soldoni i Mudhoney di una volta. Che non sono poi così distanti da quello che sono oggi. Ci si chiede quindi che senso abbia un disco di Mark Arm e Steve Turner nel 2006. Certamente i fanatici dei suoni grossi e delle distorsioni maiale saranno soddisfatti di sentire tali chitarre e sono convinto che la band sia più che onesta nella loro proposta musicale visto che, a differenza di altri, intendono la musica come un hobby di lusso e, per il loro scarso successo commerciale, nella vita fanno un lavoro vero. Ma c’è perplessità. Non tanto per una questione di suoni – queste chitarre sono sorprendentemente goduriose – ma per le canzoni. Ci sono sì certe intuizioni che potrebbero far pensare ad una rinnovata ispirazione, come le divagazioni jazzy di “Blindspots”. Ma che da sole comunque non bastano per far comprare il disco.