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Difficilmente i retroscena di un percorso critico meritano un approfondimento particolare, ma l’esempio di “A Trip To Marineville” si accaparra all’istante il grado di eccezione. Questa recensione avrebbe dovuto vedere la luce già alcuni mesi fa; avevo infatti in mente un lavoro che riguardasse non solo la presenza tra gli immortali di quest’album misconosciuto da buona parte dell’uditorio italiano, ma si allargasse racchiudendo anche il seguente e per niente inferiore “Jane From Occupied Europe” che il combo britannico lasciò alle stampe nel 1980. Nella recensione avrei fatto ovviamente riferimento alla morte prematura di Epic Soundtrack, il fratello più piccolo, portato via da un’overdose nel 1997: in quella data era definitivamente tramontata la meteora lucente degli Swell Maps, la cui storia è comune a quella di altre band della New Wave, come i This Heat o il fantastico Pop Group.
Una storia fatta di brevità, magari mai estrema quanto l’aura di icona punk acquisita sul campo dai pezzi unici di Sex Pistols e Germs, ma altrettanto germinale. E sì, perché senza gli Swell Maps sarebbe difficile immaginare cavalcate esaltanti nel cuore della musica come quelle dei Sonic Youth e dei Pavement e, come conseguenza diretta, anche buona parte dell’indipendenza sonora degli anni ’90. Tutto questo preambolo serve da apripista per sviscerare completamente l’urgenza che ha spinto verso questa recensione e che, probabilmente, tutti voi avrete già intuito: la morte di Nikki Sudden, avvenuta solo pochi giorni fa, è un colpo al cuore che non è facile assorbire.
Gli Swell Maps nacquero, come è possibile leggere un po’ ovunque, nel lontanissimo 1972 ma arrivarono a registrare il primo album solo sette anni dopo: a pensare che al momento della formazione della band Nikki ha sedici anni e Epic Soundtrack solo dodici un brivido mi percorre la schiena. A cosa fossero avvezzi i due fratellini agli albori della loro vita artistica non ci è dato saperlo, e forse non è neanche così interessante. Quello che è certo è che quando esce sul mercato internazionale “A Trip To Marineville” sono veramente poche le band così capaci di muoversi con libertà nel terreno della neonata New Wave. Nel calderone della loro musica viene rimescolato un minestrone che fa del rock la sua base compositiva: si parte con il rock’n’roll deforme e stonato attraversato da handclap e sfuriate pianistiche di “H.S. Art”, ed è una vera e propria dichiarazione d’intenti.
Se l’indole stessa della band (composta, oltre che dai due fratelli, da Jowe Head e Richard Earl) sembra sposare senza troppi ripensamenti la valvola d’aria aperta solo pochi anni prima dal punk, ciò che esce dalla loro mente non è altrettanto facile da classificare. Certo, punk e new wave, si è già detto, ma non solo: il gusto per la melodia che si fa strada con facilità tra i solchi del vinile (o tra le tracce del cd, o nell’ipnotico svolgersi di una musicassetta) rimane intatto anche quando l’attacco all’arma bianca si fa incessante (vedi lo splendore furibondo di “Spitfire Parade”, per esempio) e non è affatto così usuale come potrebbe apparire. E poi, quando meno te lo aspetti, il combo si getta in una sghemba digressione sorretta da una ritmica invadente condita da chitarre slabbrate di sottofondo e un cantato maligno e terribilmente consapevole: è “Harmony in Your Bathroom”. Alla traccia numero cinque tutta l’idea di apparentamento con altre trecento band dello stesso periodo va a farsi benedire e, la cosa veramente bella è questa, le certezze continueranno progressivamente a crollare. È così che si arriva a quei piccoli intermezzi in cui, tra il trasognato e l’inconsapevole, gli Swell Maps si mettono a schizzare sulla tela sprazzi di sperimentazione sonora.
Ennesima dimostrazione del loro essere apolidi, dunque: c’è l’indole punk senza che sia vero punk, la propensione new wave pronta a svanire sul più bello, l’avanguardia ben dosata in pillole, il pop strampalato che non si affida mai completamente alle direttive del pop. Talmente lontani da ogni facile catalogazione da essere sempre stati trattati come reietti, dal pubblico che li ha dimenticati con una facilità ignobile fino alla critica che non ha mai avuto la reale intenzione di riprenderli e inserirli in quella cerchia di autori geniali incredibilmente sottostimati. Sarà perché, dopo la fine dell’avventura Swell Maps, i due hanno continuato con diversi progetti senza mai farsi rapire dalla fascino della reiterazione; Nikki Sudden si è inguainato in una giacca di pelle in puro stile sixties e ha lanciato le coordinate della sua musica su un rock’n’roll mai completamente afferrabile, con quella caratteristica sfuggente che fa (faceva, purtroppo) delle sue composizioni universi sempre sotterranei, poco avvezzi alle luci della ribalta ma sempre – o quasi – gratificanti per chi riesce a trovare la chiave d’accesso per la torre d’avorio. Ed Epic Soundtrack? Prima che la droga e l’alcol lo rapissero a noi scrisse alcune delle più belle pagine del cantautorato contemporaneo (su tutte vale la pena citare quantomeno l’esordio solista “Rise Above”, altra perla che meriterebbe una riscoperta postuma) e partecipò anche all’avventura, anch’essa nascosta e per pochi intimi, dei Crime and the City Solution – dove gravitavano tra l’altro altri due songwriter di tutto rispetto come Simon Bonney e Mick Harvey – a sua volta derivata dallo scioglimento dei Birthday Party dal quale germogliarono anche le cattive semenze di Nick Cave. Vi gira la testa? Non vi preoccupate, è assolutamente normale.
Riepilogando, nelle quattordici tracce di “A Trip To Marineville” (ventidue nella riedizione in cd) è possibile assistere, retrospettivamente, a un intero modo di interpretare il rock, di scavarne le fondamenta, prendendone i contenuti e mostrando al mondo i lati meno precisi, gli angoli più deformi, le possibili estremizzazioni. Senza lasciarsi bruciare dal fuoco sacro della musica, ma giocandoci con un’intelligenza che non è ancora chiaro se sia da attribuire a una consapevolezza in aria di santità o a uno svanimento mentale dettato dalla giovane età.
Certo è che il diavolo che allietò i giovani giorni di Nikki Sudden ed Epic Soundtrack fu talmente fecondo da partorire non un genere proprio – sarebbe stato controsenso non da poco, vista l’inadattabilità a qualsiasi chiusura in compartimenti stagni del duo – ma un’etica del fare musica. E non è certo cosa da poco. Ora che entrambi non ci sono più, è bello immaginarseli insieme, in un non-di-qua non meglio precisato, a suonare insieme melodie pop assassine condendole con fracassonate elettriche quando meno ce lo si aspetta. Con il perenne sorriso sotto i baffi di chi la sa lunga. Ma molto lunga.