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Io sono cresciuto, nell’ascolto della musica italiana, con Francesco De Gregori: ricordo ancora la sottile emozione nell’avere tra le mani l’originale album con la pecora, trovato in un negozietto che ora neanche esiste più vicino alla fermata della metro della Basilica San Paolo, la divertente combriccola liceale che andava a vedersi il suo concerto al Palazzo dello Sport all’EUR e pensava alla maturità, le canzoni strimpellate con la chitarra che ancora non sapevo fare bene i barrè.
Ci sono cresciuto, io, con Francesco De Gregori, e non posso proprio perdonargli l’ultima deriva della sua carriera: non è passato neanche un anno da quando stroncai dolorosamente “Pezzi”, e avrei preferito sinceramente potermi fermare lì. E invece ecco che esce “Calypsos”, e tu l’ascolti e rimani impassibile. Niente… ma esiste musica qui dentro? Forse un difetto di produzione, chissà, magari i suoni non sono stati impressi. Allora lo rimetti, e rimani di nuovo impassibile: ma stavolta non c’è possibilità di errore. “Calypsos” è proprio lui, niente difetti di produzione, niente sordità improvvisa, niente di niente. E già, perchè l’ultimo album di De Gregori è proprio niente di niente, non ha un perché musicale, non ha un perché poetico, non ha un perché ideologico, non ha un perché etico.
Insomma, per farla breve non ha un perché: è la grande festa del riciclo, e il Principe ha deciso di arrampicarsi sull’albero della cuccagna e prendersi il primo premio. Nove brani, nove scopiazzature a destra e a manca del proprio passato, con in aggiunta alcune delle scelte più pacchiane che uno possa immaginarsi (su tutto, il terrificante coretto femminile di “La linea della vita”) e una fastidiosa sensazione di tempo sprecato. È il pianoforte a farla da padrone, con filastrocche istrioniche che vorrebbero avere la grazia e l’intelligenza di “Piccola mela” o “Buonanotte fiorellino” e invece si perdono a metà strada (“La casa”), ma più in generale è la musica leggera a prendere definitivamente il potere. E, tornando a bomba, il passato diventa materia da riprendere senza vergogna alcuna: ho già detto di “La casa”/”Piccola mela”, ma che dire allora di “L’angelo” che altro non è se non una “Buenos Aires” in tono minore? E di “L’amore comunque” che potrebbe benissimo essere stata partorita dagli aborti de “La valigia dell’attore”?
Ma il gioco al massacro porterebbe troppo lontano e forse neanche riuscirei a sopportarlo. Tra l’altro anche l’omaggio alla Capitale, racchiuso nei cinque minuti di “Per le strade di Roma”, non ha in sè nulla di particolare o popolare. Molti prima di lui hanno descritto l’Urbe molto meglio di lui – vedi l’addio a Roma urlato da uno splendido Remo Remotti, ad esempio, cristallizzato nell’antologia “Canottiere” -, che non sembra in grado neanche di focalizzare più il senso della città. Se siete amanti del vecchio De Gregori, quello che sapeva scrivere canzoni, lasciate stare queste uscite senza alcun senso e tenetevi stretto il passato. Altrimenti, continuate così, fatevi del male…