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Metti il cd nel lettore e inizia la title-track.
Per più di due minuti è solo il rintoccare cadenzato delle campane a scuotere l’aria, poi sommessamente si fa largo la chitarra acustica, con bruschi interventi atti a farne percepire la presenza. Poco alla volta la chitarra prende il sopravvento, la sei e la dodici corde si inseguono in un gioco di sovrapposizione che, partendo da sfumature che ricordano paesaggi asiatici, l’Indostan e il Fujiyama, porta la struttura musicale a lanciarsi in un mantra stracarico di derivazioni, intuizioni, ipotesi. Il campo ora è aperto e James Blackshaw si lancia in una cavalcata a suo modo epica, dove il fraseggio non si fa mai autoconclusivo, ma si apre bensì ad altro senza paure. E quell’altro è un’atmosfera più ansiogena, che verso il decimo minuto inizia a far sentire la sua urgenza: il fingerpicking si fa meno rilassato, la mano scorre più velocemente sulle corde e il guanto di velluto che le accarezzava fino a un attimo prima diventa un lontano ricordo.
È un neo-romanticismo bucolico quello che sposa, in attesa dell’avvento inatteso e magico dell’organo, il giovane musicista britannico; l’universo magico che tratteggia si arricchisce di rintocchi di cembali, sussurrati e leggeri, il mood torna a farsi disteso, ma come la calma dopo la tempesta, porta con sè le scorie tenebrose della sfuriata precedente. Al minuto quindici finisce quello che potremmo chiamare il primo movimento e inizia il secondo, che sembra voler tornare a ragionare su un fingerpicking incessante, arzigogolato e avvolgente. Stavolta la fuga psicogena è ancora più nevrotica, i rumori di sottofondo acquistano una corporeità che fino a quel momento era completamente mancata, le note si fanno più stridenti, meno piene: il mondo, evolvendosi, ha imparato l’illogicità della furia e ora, tornandoci a ragionare sopra, inizia a regolamentarla e a renderla più poderosa e pericolosa. Le campane, molto meno auliche, anticipano il terzo movimento dominando un panorama frastornato e frastornante, dove il rumore non sembra avere più rivali, e dove gli altri strumenti (su tutti, come al solito, l’organo farfisa) possono finalmente dire la loro con compiutezza. Poi, improvviso, arriva il vuoto sonoro. Nessuna catarsi.
E già, perché la catarsi è racchiusa nei quasi tre minuti e mezzo di “Skylark Herald’s Dawn”, gemma chitarristica di una purezza e di un nitore unici. Blackshaw, al suo terzo album e con appena ventitrè primavere sulle spalle chiude così, in appena mezz’ora, un viaggio che sembra avere alle spalle migliaia di anni. Perchè, com’è stato giustamente scritto in altre sedi, dietro il volto pulito e perennemente insoddisfatto di James Blackshaw c’è sicuramente l’ombra di Robbie Basho e della sua chitarra delle meraviglie, ma non solo. L’avant-folk che viene sprigionato in “Sunshrine” ha radici più antiche, mescola le culture senza mai dimenticarsi di ricondurle a sè, al proprio vissuto, alla propria indole. Regalando a noi poveri mortali un flusso di coscienza splendido, e talmente autentico da incantare, fino a scivolare sinuoso sottopelle e a condurre l’ascoltatore in suo potere.