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Probabilmente avevo caricato troppe aspettative su Josh Rouse. Del resto, come restare inermi davanti alla bellezza assoluta di dischi come “1972” e “Nashville”? Pensavo che non sarebbe mai stato capace di scendere dai livelli toccati con quei dischi, ma probabilmente mi sbagliavo, perché “Subtitolo” è forse la prima vera occasione mancata dell’americano trapiantato in Spagna. Va da sé che non si tratta di un brutto disco, ma non è questo il luogo per giustificare a tutti i costi quello che sembra essere in tutto e per tutto un disco inutile e superfluo. Le melodie ci sono, ma sono pur sempre le stesse del precedente lavoro – pubblicato, tra l’altro, meno di un anno fa – e non sembrano essere decisive come prima e più di una volta aleggia la fastidiosa sensazione di una patina di manierismo che al Nostro ragazzo proprio non sta bene. Che sia un tentativo di arrivare al grande pubblico sfruttando la scia dei vari Damien Rice e Kings of Convenience? Chi può dirlo! Quello che è certo però, è che prima era meglio. Quando, cioè, ascoltando le sue canzoni potevi sentire il fresco odore della primavera correrti sulla schiena, potevi correre a piedi nudi sull’erba bagnata cullato dalla malinconia di una melodia immortale come poteva essere quella di “Sad Eyes” o “Nighttime”.
“Subtitolo” è invece un esercizio di stile che cerca – inutilmente – di apparire bello a tutti i costi, ammicca qua e là cercando proseliti senza riuscirci. Che poi, ad essere veramente magnanimi, una “It Looks Like Love” possiamo anche salvarla. E anche una “Jersey Clowns”. Ma non è niente in confronto alla carica emotiva del passato. Quella che, mescolata ad un appeal melodico da fuoriclasse, aveva reso Josh Rouse unico e inimitabile. Inimitabile. Ecco perché questa imitazione di sé stesso appare tanto fuoriluogo quanto artificiosa. Un disco da ascensore che spero, almeno, faccia avvicinare parecchia gente all’Opera di Rouse, nonostante i pezzi forti stiano da tutt’altra parte.