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5 o 6 anni fra un disco e l’altro sono parecchi e pochissimi sono gli autori che iniziano la propria carriera solista a 40-45 anni. Ne sono passati 13 dall’ultimo vero lavoro di studio dei Kinks, Ray Davies ne ha 62 e di queste formulette non sa che farsene. Un carattere fuori dagli schemi, spigoloso, spesso oltre il limite della paranoia, insicuro ma meticoloso, e soprattutto una paura nel cuore: non riuscire a sfuggire alla spada di Damocle rappresentata da un passato glorioso, una carriera magnifica anche se sfibrante, una messe di canzoni e album da storia del rock (non solo inglese).
Perciò se da un lato ci si avvicina a “Other people’s lives” con una curiosità gonfiata dall’attesa, dall’altro c’è la paura che si possa trattare di un lavoro artefatto o troppo poco immediato, troppo certosino per essere coinvolgente. Troppo teso a far capire al mondo che Ray Davies può esistere anche senza i Kinks. Nel maestoso booklet, Ray ci spiega che: “dopo una vita come membro dei Kinks, ho realizzato solo ora il mio primo album solista. Pensavo che sarebbe stato facile. Quanto mi sbagliavo. Con i Kinks, il materiale veniva scritto mentre lo si registrava. Non avevo tempo di pensare alle canzoni finché non le si suonava dal vivo, dopodiché era il pubblico ad analizzarle.” Nel 1999 Ray decide di registrare in una demo tutti i pezzi di cui dispone, ne suona alcuni ad uno showcase tenutosi a New York nell’agosto del 2000, con gli Yo La Tengo come back up band. Dopo un fruttuoso viaggio a New Orleans si ritrova con molte altre canzoni per le mani, perciò decide di inciderle direttamente in Louisiana. Potrebbe dunque sorgere un ulteriore dubbio: e se l’album si rivelasse frammentario, sconnesso, un semplice collage?
Tutt’altro che semplice affrontare un lavoro di questa portata, frutto di un travaglio psicologico non da poco, di ripensamenti, di incertezze che ci danno l’idea di quanto l’autore ci tenesse, di quanto abbia speso emotivamente per realizzarlo.
Come al solito lasciar parlare il disco risolve tutto. Soprattutto in questo caso, sia perché ogni canzone è annotata, spiegata, sviscerata, raccontata da Davies stesso nel booklet, ma anche perché ci si trova di fronte ad un autore di testi di primissimo ordine. Difatti: si infila il cd, si schiaccia play, e in 4 secondi molti dei discorsi che hanno preceduto questo momento vanno in frantumi, spazzati via dall’incipit di “Things are gonna change (The morning after)”. Chitarra in feedback, sferragliare di accordi e batteria in un intro che zittisce, poi Ray ci avverte: “things are gonna change, this is the morning after”. Nelle note: ”le prime parole dell’album potrebbero voler significare che d’ora in avanti vedrò le cose in modo differente. In ogni caso qui il personaggio fa le tipiche promesse da ubriaco al mattino dopo una notte di bevute.” Si intuisce un senso di freschezza di idee, di voglia pura e semplice che manca alla maggior parte dei suoi coetanei. L’intuizione diventa dato di fatto con “After the fall”, una delle composizioni più datate dell’album e ciò nonostante quella più al passo coi tempi, grazie ad una strofa e un ritornello che gli Stones sembrano inseguire da vent’anni e ad un fraseggio di chitarra e un bridge che gli stessi non possono ormai neanche sognare. Il gioellino “Next door neighbour” rallenta un po’ il ritmo con una melodia e un testo british fino al midollo, in cui Ray ci racconta davvero un po’ di “other people’s lives”.
L’ironia non manca mai: “All she wrote” racconta di “tutte le persone che nella mia vita son venute e se ne sono andate” con un sorriso amaro sulle labbra e la voce di Ray che parte da coloriture bassissime, dimostrando la piena forma delle sue corde vocali. “Creatures of little faith” procede sulla stessa linea d’onda ed “è probabilmente cantata dal tizio che ha ricevuto la lettera nel pezzo precedente”. Come già detto, è inevitabile che Davies sia tormentato da un passato così imponente, ce lo esplicita lui stesso in “Runaway from time”, ci dice: “forse questo è ciò intorno a cui gravita il disco. Fuggire. No, non puoi fuggire dalle tue origini.” “The tourist” è uno dei frutti del viaggio in Louisiana, un tentativo magari non riuscitissimo ma perlomeno onesto di scrivere canzoni più “americane”, anche per dimostrare la propria versatilità a chi pensa a Ray soltanto come “il padrino del Britpop”. Subito dopo, tuttavia, veniamo riportati dall’altro lato dell’oceano da un divertissement completamente impregnato di inglesitudine come “Is there life after breakfast”.
Ray non è abituato a star fermo nello stesso luogo, è sempre “pronto a spostarsi da qualche parte”, e infatti “The getaway” ci riporta in America, ai risvegli con i treni che passano e le barche che scorrono sul Mississippi. “Other people’s lives” è uno spagnoleggiante j’accuse nei confronti della stampa scandalistica, “Stand up comic” è un’amara riflessione sul tempo grottesco che stiamo vivendo. Dopo questa parentesi riflessiva si arriva apparentemente all’episodio conclusivo di questo viaggio, una “Over my head” che si accende in un ritornello di una brillantezza e di una classe sopraffina. Invece non è finito nulla, e dopo un’ora di musica più che sufficiente a convincere della bontà del lavoro Ray infila l’ennesima chicca: una ghost track che è il suo pezzo veramente americano, non solo perché in un testo sopraffino parla del giorno del ringraziamento, ma anche per un arrangiamento fatto di chitarre, organo, fiati e coro che impregna il pezzo di soul e gospel, e che ribadisce l’altissima qualità della produzione.
Ora sì, il silenzio ci avverte che è tutto finito, che è ora di tirare le somme, compito piuttosto facile dopo tutto questo. C’è gente che è sulle scene musicali da tempo immemore e da altrettanto tempo non ha davvero più nulla da dire. Meglio far perdere le proprie tracce per poi ricomparire in maniera fragorosa e vitale oppure trascinare stancamente il proprio fantasma e ripetersi meccanicamente? Ray Davies ci dimostra che la prima via è sempre la migliore, e che per un album come “Other people’s lives” vale la pena di aspettare.