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E’ bruttissimo parlare di un disco australiano nei giorni in cui si è venuti a conoscenza della morte di Grant McLennan dei Go-Betweens. Destino bastardo, portarcelo via a 48 anni per un infarto. Grant e i suoi “intermediari” erano tra le migliori realtà della scena pop australiana nata negli anni ’80 grazie all’influenza del power-pop, delle College Radio e della new wave inglese. Assieme a loro, l’altra punta di diamante era ed è rappresentata dai Church di Steve Kilbey. Un’altra band che nonostante abbia avuto un solo successo internazionale – “Under the Milky Way”, ovviamente – non ha desistito a pubblicare dischi. Siamo ormai arrivati a venti e sono uno più bello dell’altro. Una magia. Un incanto. E questo “Uninvited Like the Clouds” non fa certo eccezione. Anzi, se non fosse per qualche riempitivo di troppo che poteva essere tolto senza problemi – il disco dura un’ora: tre canzoni in meno non facevano male a nessuno – potrei stare qui a scriverne per ore come un vero e proprio capolavoro. L’attacco di “Block” è un colpo al cuore, una di quelle canzoni da perderci la testa per ore che solo i fuoriclasse assoluti sono capaci di scrivere. Classe, tra l’altro, ribadita con la melodia cristallina di “Unified Field” e gli ampi respiri di “Overview”, ballata talmente bella da cancellare in un colpo solo tutti quei salamelecchi melodici delle centinaia di brit-pop-band indistinguibili fra loro e baciate dalla cecità delirante dell’NME. Purtroppo poi – più o meno da “Never Before” (buona ma troppo lunga) – arriva la sensazione del deja-vu, dell’esercizio di stile e del riempitivo. Peccato, perché la prima metà è da puri campioni e avrebbe meritato un miglior commiato. Resta il fatto che “Uninvited Like the Clouds” è da ascoltare e possedere assieme al resto dell’opera dell’unica chiesa che noi atei rocker abbiamo mai pregato. Non so cosa ne pensi Grant McLennan di Kilbey e soci, ma secondo me, da qualche parte, sta alzando il pollice fiero di loro.