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Una donna stilizzata, fatta di geometrie sgembe. Con la bocca piegata in un sorriso ironico e pericoloso, un coltello abbassato ma pronto a colpire. L’immagine di copertina rende perfettamente l’idea del disco dei bresciani Black Eyed Susan: la loro è musica oscura, spezzata, viscerale; è tensione sul punto di esplodere; è la profondità notturna di due voci (una maschile e una femminile) emotive e potenti.
Non è difficile cogliere i riferimenti americani in queste dieci canzoni; la cosa davvero difficile, però, è staccarsi da questo disco, che sa coinvolgere profondamente, come poche altre cose ascoltate quest’anno. È “The jail” a iniziare il viaggio su storti binari math-blues che non dispiacerebbero a Jim O’Rourke, ma l’innamoramento scatta al secondo brano, quando entra in campo la voce di Luisa: se mai avessimo cercato un’erede del sensuale pericolo emanato da Giovanna Cacciola degli Uzeda, l’abbiamo trovata ora, e con una duttilità ancora maggiore.
La tensione aumenta nei due pezzi più belli del disco, quando gli strumenti deragliano furiosi seguendo le orme degli Shellac (“Orange”) o nel desolante vuoto notturno di “Golden cage” (con un crescendo finale davvero da brividi); si sfoga nella title-track strumentale per poi scoppiare, sboccata e violenta, nella distuttiva “I hate you”. Non ci sono rassicurazioni, in queste dieci canzoni, se non nella momentanea quiete di “L.K.” (immaginate gli Smashing Pumpkins di “1979” uniti col bordone di synth di “Rich” degli Yeah Yeah Yeahs); le visioni noir ricominciano subito dopo, fino a scoppiare nella conclusiva “Backdoor”: oltre sette minuti minimali, ossessivi, in cui una versione elettrica dei Suicide copula con un ringhio spaventoso.
Oscuri e perturbanti, i Black Eyed Susan sono riusciti a creare un disco che emerge davvero nella miriade di album pretenziosi e finti che arrivano alle nostre orecchie in questi giorni: dieci canzoni con una forza, un’emotività e una capacità di attrarre fuori dal comune.