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E’ lunga l’A1 passando il venerdì sera dall’allacciamento A1-A14 di Bologna. Sto parlando come il CIS viaggiare informati, però è vero. Raggiungere Imola specchietto a specchietto con gli assettati dei weekend in Riviera vuol dire sentirsi come Dick Dastardly in “Wacky Races”: perdenti. Non c’è neanche male però che alla fine si arriva (la Macigno Mobile si dimostra in realtà un Diabolico Coupé), e si arriva mentre stanno suonando i Negramaro. Ciò vuol dire che si è perfettamente in tempo con l’evento. I Depeche, per carità, non i Negramaro.
E non si può definire altrimenti: evento. Si è sentito che i biglietti dei Depeche Mode a febbraio a Milano hanno raggiunto livelli di bagarinaggio assurdi (200 euro? 300 euro?), e ciò – purtroppo – misura anche il grado di febbre che c’è intorno ad un gruppo e alla voglia di vederseli ad ogni costo. A concerto finito possiamo dire: a ragione. Nonostante i nostri stentino un pochino all’inizio, e nonostante Dave Gahan molte volte lasci il pubblico cantare (in tutti e tre i ritornelli di “Enjoy The Silence” non proferisce una sillaba… che peccatoooo!) e si maligna perché un minimo giù di corda con la voce, nonostante tutto ciò, da “Walking In My Shoes” in avanti (la quinta in scaletta) i D.M. ingranano, appunto, la quinta e ce la fanno sentire, l’elettronica.
Prima una “Precious” slegata e scarica e un paio di pezzi di rodaggio dall’ultimo “Playing The Angel” (“A pain that I’m used to” e “Suffer well”) con solo una “A question of time” dal climax quasi gothic alla Marylin Manson. Sul palco l’allestimento è da “fantascienza marittima”: tre canotti che sembrano astronavi nascondono le tastiere. Gore invece sposa la fantascienza “aviaria”: alla sinistra di chi guarda con la sua chitarra e un parruccone nero da galletto. Subito ci si chiede chissà perché, poi si nota che sulla schiena ha anche le ali: non è Red Bull ma fa il pulcino (opera di Corbjin) della copertina di “Playing The Angel”.
Lasciamo il look e torniamo alla musica: complimenti al batterista, è il classico batterista che ci vuole per un gruppo elettronico: una locomotiva. Una vera potenza che trasmette il pathos live nonostante le (inevitabili) basi (Fletcher rimane più tempo a braccia alzate incitando il pubblico che con le sue manine immerse nel “canotto”, segno che qualche base in automatico va eccome).
Personalmente ci sono sembrate: 1. toccanti “In Your Room” e, dopo la pausa, una “Shake The Disease” solo piano e voce, cantata da Gore, 2. epiche “World In My Eyes” e “Personal Jesus”, 3. ipnotiche “I Feel You” e “John The Revelator”, 4. belle dark “Stripped” e “Photographic” (per quest’ultima Gore ha specificato “This is the first song we’ve recorded”).
Per ultima una “Never Let Me Down Again” che lascia soddisfatti. Altro che Dick Dastardly, alla fine salta fuori Muttley. Medaglia, medaglia.
(Paolo Bardelli)