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Mi sembra giusto portare in evidenza questo disco, troppo spesso dimenticato di fronte ad altri capolavori del gruppo berlinese guidato da Blixa Bargeld, come “Halber Mensch” e “Kollaps”. Eppure Richterskala è importantissimo da molti punti di vista: innanzitutto differisce dal sound degli album a sé precedenti, perchè caratterizzato da tonalità soprattutto basse, dove prima erano presenti urla e canti, ora sono voci sommesse, la teatralità e l’urgenza comunicativa passano in secondo piano, per lasciare spazio alle emozioni più intime e ostiche a palesarsi. La base musicale, precedentemente dominata da percussioni metalliche, attrezzi da lavoro e espedienti di fortuna resi musicali dal genio del gruppo, è adesso guidata il più delle volte da un basso vigoroso, che ben si confà alle tematiche e al mood dell’album.
Inoltre, Richterskala contiene già le prima avvisaglie di quello che diventeranno gli Einsturzende Neubauten dopo la svolta iniziata nel 1989 con “Haus der Luge”, ultimo album che mantiene più o meno intatte le caratteristiche iniziali del gruppo, e compiutasi nel 1991 con “Die Hamletmaschine” e, nel 1993, con “Tabula Rasa”, quando i berlinesi presero tutt’altra direzione musicale, conformandosi maggiormente alla forma canzone, e cominciando a utilizzare soprattutto strumentistica tradizionale, seguendo i cambiamenti di un mondo che si trasformava rapidamente, differenziandosi sempre più da quelle che erano le loro radici. Il crollo del muro di Berlino, l’inizio della collaborazione di Blixa con Nick Cave nei Bad Seeds sono solo due degli enormi cambiamenti che hanno totalmente modificato l’idea musicale del gruppo, che continuò comunque a produrre dischi di pregevole fattura.
Ma è il momento di arrivare nel cuore del disco, le canzoni. Inizio: “Zerstörte Zelle”. Un basso “pesante” e incisivo ci guida in un viaggio nelle sensazioni basse e recondite, accompagnati dalla voce di Blixa, che si trasforma a volte in lamento, a volte in urla represse e mantenute sottotono. Impotenza, incapacità di reagire, di muoversi da situazioni che vorremmo non ci appartenessero, ma che occupano la maggior parte della nostra vita, niente ci può smuovere, siamo legati, chiusi in una cella, immobilizzati fino alle più piccole parti di noi, le cellule. Su questo gioco si basa l’intero testo della canzone, “zelle”, infatti può significare sia cellula che cella. Imprigionati dal nostro corpo, inadatti a vivere a testa alta (“Cellula/cella devastata / E all’improvviso mi rendo conto / Che le braccia non sono ali / e sono del tutto inadatte al volo”). I riferimenti nella seconda parte della canzone al mito di Prometeo servono a chiarire ancor meglio ciò che Blixa voleva trasmettere (“Io sono Prometeo / Mi riprendo il mio regalo / Sono Prometeo / Solo che il mio fegato non ricresce / L’aquila deve morire di fame / Questa notte darò fuoco alla mia cellula/cella”).
La seconda traccia è una cover, “Morning Dew” di Tim Rose, che gli EN trattano aumentando e rendendo portante il ritmo dettato da percussioni “atipiche”, come al solito, e aggiungendo chitarre psychowestern. È una traccia che alleggerisce la gravosità della prima, e fa da preludio alla successiva, che ritorna nuovamente al forte impatto emotivo. “Ich bin’s”, infatti, rappresenta un altro lato delle sensazioni umane, rabbia, disillusione, smarrimento. Una struttura ritmica quasi tribale, ossessiva, fa da unico sottofondo a un alternarsi di cori e voce solista, che scandiscono parole forti come un fiume in piena (“Sono io / Nulla / sono io / vuoto / Il puro vuoto / evidentemente in pezzi / niente come la luce / in zero virgola nulla / là fuori c’è un nuovo giorno – da qualche parte / solo non qui, da nessuna parte”).
Ossessività e frenesia che vengono riprese in “Modimidofrsaso”, titolo composto dalle iniziali dei giorni della settimana. Questa volta è la voce che dà tutta la forza emozionale, accompagnata da musica che ne segue le mosse, ma è Blixa che come in un teatro deserto recita (?) la parte dello psicotico, creando una danza demente (per rimanere nell’ambito).
“La mia testa è un labirinto
La mia vita è un campo minato.”
“12 staedte” è una vera e propria odissea nel profondo, 8 minuti e mezzo di rumori accompagnati dalla voce recitante, sottovoce, seguita da note di basso che pesano come macigni nell’affresco totale del pezzo. Un’emozione fortissima, indotta anche dal testo, angosciante, che ben si addice all’impatto musicale.
“Keine Schoenheit ohne gefahr” (non c’è bellezza senza pericolo) è invece una specie di innalzamento, un volo in lande desolate e aride, volo sbilenco, in continuo pericolo di caduta, che fa seguire a planate picchiate vertiginose e incontrollate, ma d’altronde il volo è bellezza, e non c’è bellezza senza pericolo… Il pezzo di chiusura è “Kein Bestandteil Sein” (non voglio farne parte), rivendicazione di individualità, dell’essere speciali, e per questo distinguersi dagli altri, starne lontani. Lascia però aperto il dubbio se il non farne parte è dato dall’orgoglio di essere diversi, o dall’incapacità a stare con gli altri, e per questo essere destinato a ridursi in nullità, a spegnersi per incapacità di vivere.
“Non voglio farne parte
nemmeno una particella nella rete
nemmeno pulviscolo
Cambio la mia voce con strida di uccelli
Cambio il battito del mio cuore in tremori
il più in alto possibile nella scala aperta di Richter”