Share This Article
Vidi Owen Pallett per la prima e unica volta aprire uno strepitoso concerto degli Arcade Fire a Milano (recensione), lo scorso anno. Aveva un nome buffo, Final Fantasy, come un videogioco, e sembrava un bambino: un caschetto biondo da pubblicità Kinder, un violino, e qualche pedale; eppure, il ragazzino mostrava un gran talento, ed è da lui che tutta la scena di Montreal va per arrangiare le partiture d’archi. Mandava in loop il suo violino, la voce calma gli si strozzava in urla furiose, costruiva canzoni complesse e senza alcun supporto ritmico. Lo ritrovai così in “Has a good home” pochi mesi dopo e lo incontro di nuovo ora, in un’opera seconda che è un passo in avanti gigantesco.
Owen non è più solo: le canzoni sono arrangiate per quartetto d’archi, pianoforte, harpsichord e percussioni, e così le intricatissime melodie che sa costruire prendono una forza incredibile, odorano di rock sinfonico, colto, pieno di riferimenti che vanno dalla classica contemporanea di György Ligeti e Bela Bartòk al pop sublime dei Beatles (la title-track, qui, non corteggia forse “Eleanor Rigby”?). Le canzoni di “He poos clouds” hanno una costruzione più ricca, ma non si liberano dalle ombre: non è del tutto rassicurante il violoncello che scresce in “Arctic circle”, né lo è il passo furtivo dell’amante che spia in silenzio in “Do you love?”, né la perturbante “If I were a carp”, con quella voce che sembra provenire dal fondo di un pozzo.
Il talento di Final Fantasy è anche quello di saper dare una sensazione di spazialità al suono; le sue canzoni non sono solo ricche di dinamica musicale, e sanno descrivere “fisicamente” le visioni che evocano: così, quando in “I’m afraid of Japan” la voce si assottiglia lentamente, la sensazione che si ha è quella di vedere il protagonista che si allontana per non voler guardare una scena orribile.
È musica altamente suggestiva, che vive di contrasti (il buio contro il ritmo di mambo nel pizzicato d’archi di “Sing sing sing”): le urla squarciano “Many lives -> 49 MP”, e poco dopo un pianoforte ricama con grazia su “The Pooka sings”.
Owen Pallet ha finalmente iniziato ad usare tutto il proprio enorme talento anche nei dischi a suo nome: un egoismo di cui non possiamo che essere grati.