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Ricordate il videoclip di “Twenty years” dei Placebo? Pura estetica dark di giocolieri tristi, ballerine come bambole invecchiate, un circo di fuoco tremolante. Ecco, i Lampshade hanno messo in musica quell’estetica, con un disco, il loro secondo, che è davvero una sorpresa inaspettata. Dopo ascolti ripetuti, ancora non è facile dare un senso compiuto al loro suono: hanno la malinconia dei Devics pur essendo più robusti del duo californiano, la vocalità pacificata di alcune cose dei Cranberries dei primi album, i nervi e i tempi spezzati del post-punk, la innocenza di bimba di Emiliana Torrini… e tutto questo in dodici canzoni. Delicate come bambole di porcellana, in cui oscurità e beatitudine sono i due volti della stessa vicenda.
Rebekkamaria, la cantante con un nome che a noi può solo far sorridere, ti invita ad avvicinarti piano, e poi ti strega con “New legs”, nervi post-punk dentro un carillon di zucchero; le chitarre stridono come artigli, ma una melodica arriva a rendere tutto gentile (“By and by I come”); la voce tenta di consolare qualcuno che si è appena svegliato da un incubo (il fuzz ansioso del basso, il pianoforte sciolto nel vortice di chitarra mentre la voce vola come farfalla dalle ali nere in “It’s ok”), o di raccontare una natura grande e terribile (“In the woods”).
Una bella sorpresa, si diceva, ricca nei suoni e nelle ascendenze letterarie: “Feather of lead” riadatta Shakespeare in un’atmosfera di violenza inesplosa, ma la poesia arriva anche nel testo del valzer post-punk di “Fjäril” (ospite Damien Jurado alla voce) o nei ricordi new-wave di “Joy”, che suona proprio come se i Joy Division fossero tornati bambini e si innamorassero di tutto. Piccola gemma dark, diamante trovato nel vetro, “Let’s away” è un disco incantato e oscuro, umido di rugiada e di sogni. Non raccoglierlo sarebbe un peccato davvero molto grave.