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Gli Slowdive nascono inizialmente sotto il nome di Pumpkin Fairies, formati dai giovanissimi Neil Halstead e Rachel Goswell, provenienti entrambi dai dintorni di Reading e conosciutisi sui banchi di scuola. La passione comune per gruppi come Jesus and Mary Chain, Velvet Undergound e House of Love aveva trovato consensi anche nel chitarrista Christian Savill (entrato in formazione stabile dopo l’avventura con gli Eternal) e il bassista Nick Chaplin, che muta il nome della band dopo che la parola Slowdive gli era apparsa in sogno; il primo batterista Adrian Sell ebbe invece vita breve all’interno del gruppo.
Trovato in circostanze fortunate un contratto con la Creation, che era allora il punto di riferimento della scena “shoegaze” capitanata dagli avanguardisti My Bloody Valentine, nel novembre del 1990 esce il primo ep omonimo, pubblicato quando l’età media della band era ancora al di sotto dei vent’anni e che già dimostrava una stupefacente padronanza nell’uso di chitarre distorte e sommerse da strati di feedback (che caratterizzavano per buona parte il sound di tutti i gruppi vicini alla corrente).
La prima traccia, “Slowdive”, (contenuta insieme al resto degli ep nel disco bonus allegato) mette subito in chiaro le intenzioni della band: le voci di Neil e Rachel rimangono in secondo piano e si perdono negli intrecci di chitarre prodotti. Nella successiva “Avalyn” si raggiungono già vette compositive considerevoli: l’arpeggio iniziale viene supportato gradualmente da una distorsione che proietta nell’aere mentre la soave voce di Rachel cresce con intensità accompagnando l’ascoltatore in un viaggio celestiale. La scrittura dei testi, quasi interamente ad opera di Neil così come la musica, resta in questa dimensione trascendentale da sogno.
Riscontrati ottimi consensi da parte della critica, il secondo ep “Morningrise” (febbraio 1991) viene preceduto dal doppio cambio alla batteria: Adrian Sell viene sostituito per un breve periodo da Neil Carter, che cede a sua volta il testimone a Simon Scott, a tutti gli effetti il batterista più longevo prima dell’addio sul finire del 1993. “Morningrise” rappresenta un passo in avanti per quanto riguarda la forma delle canzoni: l’omonima traccia (da cui viene estratto il primo video) è uno scintillare di chitarre mentre “She Calls” si apre in un crescendo di timpani e atmosfere eteree per poi dilatarsi in una coda strumentale di autentico fascino, accompagnata dai cori dei due cantanti che sembrano in uno stato di trance perenne. “Losing Today” ripresenta voci sussurrate e sofferenti sullo sfondo di una musica quasi tenebrosa che sembra risalire dritta dalle viscere della terra per cinque minuti di pura catarsi.
Tornata nuovamente al lavoro, la band registra ai Courtyard Studios di Abingdon il successivo ep “Holding Our Breath”, che riesce a conquistare la prima posizione nelle classifiche indie dopo la sua uscita nel giugno di quell’anno. La prima, celebre, “Catch the Breeze” lancia definitivamente gli Slowdive verso la composizione del primo full lenght: è la riprova di come le stupende atmosfere sognanti del cantato si fondano alla perfezione con chitarre distorte che sconfinano in una dimensione parallela. “Golden Hair” è un rifacimento quasi spettrale di un poema di James Joyce precedentemente ripreso dal folle genio di Syd Barrett mentre il terzo brano, “Shine”, rappresenta la vetta di questa produzione: scie di chitarre fluttuanti e melodie romantiche accompagnano l’angelica voce di Rachel Goswell in una tempesta sentimentale di impatto unico, splendidamente sintetizzata nel video che mostra il gruppo immerso in sterminati campi di fiori e spiagge di ciottoli. La Peel Session (registrata a marzo) contenuta nel disco offre un’incantevole versione di “Catch the Breeze” (con liriche che non saranno quelle definitive), una working-version di “Shine” (allora chiamata provvisoriamente “Song 1”) e una “Golden Hair” con il solo Neil alla voce.
Il 1991 è un anno fondamentale per la Creation e per il movimento shoegazer in generale: viene licenziato “Loveless”, capolavoro dei My Bloody Valentine che s’inscrive immediatamente tra le pietre miliari del rock e la cui registrazione manda in rosso i conti della casa discografica di Hackney. Gli Slowdive, dal canto loro, entrano in studio per realizzare quello che sarà il loro debutto full lenght, “Just For a Day”, pubblicato ai primi di settembre.
Il disco inizia con il basso tesissimo di “Spanish Air”, sei minuti di climax che si accostano maggiormente al dream pop di matrice Cocteau Twins: l’album stesso segue in generale questo percorso, soffermandosi sulla ricerca di atmosfere ed armonie più che lanciarsi nell’estasi di chitarre, come conferma la seconda “Celia’s Dream”, dai morbidi e sofisticati arrangiamenti. “Ballad of Sister Sue” è un episodio cupo dove Rachel Goswell è la sola luce soffusa che guida nell’oscurità come per la delicata “The Sadman”, che si apre però a squarci di luce improvvisi; anche la sognante “Waves” irradia luce positiva, accompagnata dall’appassionato canto di Neil Halstead. Il disco si muove fisso in quest’oscillante direzione, dove i momenti di buio vengono spezzati da caldi raggi di sole (“Brighter”). Il finale è affidato alla magia di “Primal”, dove all’apparente quiete iniziale si oppongono momenti centrali decisamente più carichi di pathos: le chitarre ondeggiano nella coda psichedelica di due minuti che conclude nel migliore dei modi un album che ottiene ottimi riscontri di critica e pubblico. “Just For a Day” imbarca gli Slowdive in un lungo tour di supporto ai Ride anche negli Stati Uniti, dove la band aveva trovato un contratto con la SBK che aveva quindi permesso la distribuzione del disco oltreoceano.