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Ho la mania di non buttare mai via le riviste vecchie, soprattutto quelle musicali. Mi piace andare a rileggere le recensioni dopo anni di distanza, vedere come era stato giudicato un disco all’epoca. Ieri stavo sfogliando un “Mucchio Selvaggio” del giugno 2000, e il buon John Vignola intitolava così la recensione di “The first of the microbe hunters” degli Stereolab: bizzarrie di maniera.
Arrivo al punto: da almeno sei anni non c’è una sola recensione degli Stereolab che non ne incensi la creatività, l’imprevedibilità degli arrangiamenti, l’importanza storica del loro pop retro-futuribile, e che allo stesso tempo non sottolinei come la band abbia già dato il meglio di sé, che queste stranezze sembrino ormai fini a se stesse e che perfino l’originalità può diventare maniera.
Non fa eccezione questo “Fab four suture”, strano fin dall’idea che lo ha concepito: non è il nuovo album degli Stereolab, ma una raccolta di singoli e b-sides usciti nell’ultimo anno solo in sei differenti 7”.
Una collezione di dodici canzoni disposte in maniera ciclica (le due “Kyberneticka babicka”, pressochè identiche, che aprono e chiudono la scaletta), che ondeggiano tra ritmi sostenuti e psichedeliche dilatazioni a base di Moog e macchinari vintage, ritmiche kraut e fiati, voci eleganti e alambicchi vari. Non c’è niente che non funzioni in “Fab four suture”, ma tutto suona decisamente poco fresco, inventivo: una ripetizione di una formula perfettamente congegnata. Poco spontaneo, ecco.
La scaletta offre giusto un paio di eccezioni: il recupero di una visione politicizzata come agli esordi in “Visionary road maps” e la samba futuristica di “Excursions into “oh, a –oh””, con chitarre e moog ad imbizzarrirsi sul finale. Sarà banale dire che gli Stereolab hanno già offerto di meglio, tutti non fanno altro che scriverlo da anni. Eppure hanno ragione.