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Niente più Paulo Zappoli, niente più rock mascherato da serata danzante con tanto di dissetanti cocktail alla mano, niente più svisate colorate all’inverosimile. I Black Heart Procession di “The Spell” tornano all’antico anche se, come avremo modo di vedere, qualche cambiamento significativo c’è. La cosa certa comunque è che chi, come il sottoscritto, era uscito con gli occhi fuori dalle orbite e un malcelato senso di inadeguatezza dall’ascolto di “Amore del tropico”, avrà modo di tirare un bel sospiro di sollievo nel sapere che la band torna a ragionare nell’ottica della ballata sconfitta, attraversata dai geloni dell’inverno e mai completamente capace di affidarsi alla catarsi emotiva e spirituale.
Tanto per rendere ancora più chiaro il concetto arriva la frase che apre l’intero lavoro: “There is a Place Where I Stay Near the Sea, Always Alive She Said in Me You’ll Be”. L’amore perduto, la memoria, la promessa di un’eternità sempre attesa e mai giunta sono tematiche che riconducono da subito l’ascolto ai primi tre capitoli marchiati dai numeri romani che rappresentano senz’ombra di dubbio il meglio che la band abbia composto finora (con un plauso particolare al “Black Heart Procession II”, già diventato a suo modo un classico del rock). Eppure, anche dopo pochi ascolti è possibile percepire la forza di questo “The Spell” che acquista splendore e imponenza proprio quando sfrutta le dinamiche oramai ultra collaudate dei primordi per affrontare sfide diverse.
Le ballate, innanzitutto: si adattano ancora alle lunghe giornate invernali color cappuccino e preferiscono sostare come al solito dalle parti dei toni minori, ma hanno dalla loro una corposità e una forza dirompente che le rende diverse. Non si va più verso la sconfitta accettandola, ma vi si oppone una verve insospettata, con la sezione ritmica lì a scandire con tenacia l’urgenza di una lotta, le asprezze delle chitarre a incunearsi nei varchi lasciati liberi ostruendoli e torturando la forma musicale e alcuni rintocchi di violino a impreziosire le trame. Anche se, e non è il caso di sottovalutare questo punto, è ancora il pianoforte di Tobias Nathaniel la spina dorsale dell’intera architettura musicale messa su dalla band: un pianoforte capace di mostrare una gamma emotiva invidiabile, come sempre. Difficile andare a cercare il brano che più degli altri si inserisce nelle pieghe dell’ascoltatore per trascinarlo nella sarabanda umorale, certo è che “The Waiter #5” (praticamente una Mary Poppins al maschile che canta schiacciata da una valanga di neve) e “The Letter” (ballata della miglior specie, che è possibile in parte apparentare al Daniel Johnston più auilico, per quanto il tratto della penna di Pall Jenkins sia unico e inconfondibile) sono due gioielli puri.
Puri come la neve che ha sempre trovato asilo nel cuore nero della band di San Diego, California (e quanto è spiazzante immaginare le spiagge assolate con in sottofondo le strazianti parole d’amore di Pall, Tobias e compagnia suonante e in sovrimpressione le corse dei plastificati bagnini Pamela Anderson e David Hasseloff) e che non ha alcuna intenzione di andarsene, neanche stavolta. “Amore del tropico” è stato solo un episodio, ora possiamo esserne tutti certi.
E torniamo a respirare.