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Frank Black torna in carreggiata; lo fa con un album doppio, che non fa che ingarbugliare ulteriormente tutto quello che si può ipotizzare per il suo futuro. Da un lato ci sono le reunion con i Pixies, che riempiono i festival e fanno sobbalzare di gioia il cuore di ogni fan che si rispetti, dall’altro la carriera da solista di questo corpulento cantautore. Un cantautore con il passato bislacco, molto adatto ai ‘folletti’ nascosti nel nome della band, e un presente più affascinato dalla tradizione, dallo standard.
“Fast Man Raider Man” è un album in cui è possibile incrociare tutte le passioni contemporanee di Black, tra ballate irrobustite da fragori rock di contorno, rimasugli di pop appena appena intinti nella tavolozza di colori da cui ha preso forma la psichedelia, dolcificati racconti adagiati in un incedere country mai particolarmente nascosto, canzoni che avrebbero fatto sorgere un sorriso bonario sul volto di Johnny Cash. Ogni tanto è possibile che le geometrie sbilenche dei Pixies facciano capolino, ma a dire il vero sono da cercare molto in profondità. Dopotutto Frank Black non è più Black Francis, e non sarebbe giusto pretendere un passatismo buono solo per i nostalgici senza vergogna proprio da colui che con onestà e caparbietà ha sempre distinto con precisione certosina la propria esperienza di cantatutore da quella di leader di una band. “Fast Man Raider Man” non deve essere l’ennesima occasione per potersi crogiolare nel motto “si stava meglio quando si stava peggio”, deve altresì permettere a tutti coloro che ancora non l’abbiano fatto di passare oltre, comprendere come il tempo di “Surfer Rosa” e “Doolittle” sia da relegare alla memoria per potersi concentrare sull’adesso, sull’oggi, su ciò che in questo momento Frank Black ha intenzione di regalarci. Non che si voglia avallare l’ipotesi critica che tutto vada bene sempre e comunque, perché sappiamo tutti che “Fast Man Raider Man” non vale un ottantesimo dei gloriosi giorni della furia del quartetto di Boston, Massachussets.
Eppure nel leggere musicalmente l’avventura di Black, che un tempo si definì “the Belly Dancer” e che oggi appare più che altro come uno di quei bidelli dall’espressione vagamente ebete che abitano i teenager movie degli anni ’80, è impossibile non rendersi conto di quanto questo album doppio rappresenti nel bene e nel male un escursione senza timori nell’America contemporanea. Senza dare a questa affermazione il peso specifico di un’analisi politica magari raffazzonata o poco approfondita, sia ben inteso. “Fast Man Raider Man” fotografa gli Stati Uniti perché della cultura statunitense è intessuto, in ogni sua fibra, in ogni suo istante, in ogni suo fraseggio. Era già così quasi venti anni fa, quando un ragazzotto fresco di laurea lanciava urletti narrando le gesta (anti)eroiche di una sfilza di personaggi di per sè poco importanti o peggio ancora ben poco raccomandabili, ma pochi sembrarono realmente rendersene conto, stupefatti più che altro dalla particolarità della proposta sonora.
Ecco allora che, forse, cercare di leggere la carriera solista di Frank Black con maggiore interesse rispetto a quello solitamente riservato alle reliquie che ancora non hanno deciso di diventare al cento per cento oggetti da museo, potrebbe permettere di capire di più e meglio anche la band storica al cui nome è ancora legato. Può essere una sfida inutile, chissà…ma perché non provare?