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Giravano brutte voci sui Giardini Di Mirò. Di blocchi creativi, di scioglimento. E invece no: dopo “Punk…not diet”, vecchio ormai di tre anni e non perfettamente riuscito, i GdM si stavano semplicemente muovendo altrove, assecondando le curiosità della loro opera seconda. “North atlantic treaty of love” raccoglie due EP usciti negli ultimi mesi, e mostra la nuova via: la strada per il terzo album conduce verso territori post-hop, dove la timidezza shoegaze si trasferisce dalle chitarre al cantato e la ritmica, spesso digitale, è in primo piano.
L’iniziale “Othello” è una piccola sorpresa, dunque: Jukka debutta alla voce, e il brano è un nevischio leggero di beat sostenuti, pianoforte e chitarre stratificate; in “Little Cesar” la batteria satura tutto lo spazio del flow e di un angelico controcanto femminile: il sestetto reggiano si è definitivamente innamorato dell’hip-hop e tenta di farlo confluire nel proprio suono, dopo le produzioni di Zucchini Drive, il prossimo disco solista di Nuccini! e alcune pagine del bel debutto di Pillow. La ritmica cerca e trova spazio anche nella cover di “Blood red bird” degli Smog, classica presenza nei live dei GdM, mentre “The perfect trick” si stende su un clangore lento e immaginifico.
Difficile immaginare, da qui, cosa diventerà il terzo album ufficiale del sestetto, e nemmeno i remix posti in chiusura aiutano a comprendere: Alias fa il suo compitino su “Given ground” irrobustendone la ritmica, The Sea muove poco convinto gli archi su “Last act in Baires”, mentre sono stupendi il remix di Apparat di “Once again a fond farewell” (con quel ritornello che si fa aereo e potente) e il modo in cui gli Hood trasformano “The swimming season” in un gorgo inestricabile di voci. La direzione sembra essere la fuga verso l’hip-hop che molte band glitch stanno intraprendendo: una scommessa che i GdM potrebbero vincere con il loro malinconico istinto melodico, o perdere intrappolandosi nelle sabbie dei clichè alla 13&God. Staremo a vedere.